Rubo dal mio amico Stefano Piantini.

Marcus Rothkowitz, nato nel 1903 a Daugavpils, in Lettonia, all’alba del 25 febbraio del 1970, a New York, si suicida recidendo entrambe le arterie delle braccia, sotto le ascelle, con la aggiunta di una robusta dose di Cloralio Idrato, un potente ipnotico.

Era malato e depresso.

Ebreo, fu perseguitato tutta la vita da un incubo: un pogrom in cui i Cosacchi avrebbero fatto scavare una fossa comune agli abitanti del villaggio, nella foresta, e poi sparato in testa a tutti. La fossa era quadrata.

A Daugavpils non c’è mai stato un pogrom russo, ci hanno pensato i nazisti, dopo.

I dipinti di Marcus ripeteranno la forma della fossa.

Nel 1959, i lavori commissionati a Marcus, l’anno precedente, dallo sciccosissimo ristorante del Four Seasons – New York, Seagram Building – planano a Londra, alla Tate.

Marcus, saggiamente, non li ritenne adatti ad un luogo di rumorosi e abbienti ghiottoni. Sono variazioni di nero, marrone scurissimo e grigio.

I Rolling Stones, nel 1965, visitano la installazione, la stanza (terribile e stupenda, è ancora lì) e scrivono uno dei loro pezzi più belli e celebrati “Paint It Black”, che compare nel loro album del 1966 “Aftermath” (allora erano geniali, a dir poco). Aftermath significa: Conseguenze.

Marcus Rothkowitz, ovviamente, altri non è che Mark Rothko. Questi erano artisti, lui e gli Stones intendo.

Oggi, un cane gigante in acciaio colorato e lucidato, fatto in fonderia, che mima e pantografa una tipica ed effimera creazione, normalmente opera di ambulanti con i classici palloncini legati, viene venduto a 60 milioni di dollari. Siamo molto oltre Trimalcione, la musica sta anche peggio.