Ieri o ier l’altro letta intervista a tutta pagina al rapper Rkomi. Chi mi conosce non si stupirà se dico che non avevo mai sentito parlare di questo signore.
E allora perchè l’ho letta? Perchè il titolo recitava qualcosa come: a diciott’anni mi sentivo uno sconfitto.
La cultura dello sconfitto o del vincitore (loser o winner) è propria degli Stati Uniti. Qui da noi c’era (e c’è) una cultura del fallito e del fallimento, ma non una dello sconfitto.
Essere sconfitti implica aver lottato con un nemico ed aver perso: per un diciottenne chi o cosa può essere il nemico se non la vita stessa? In generale essere un loser significa, per quel che si capisce della società americana, essere uno che si accontenta, uno che nei rapporti umani soccombe, uno senza ambizioni. È una qualità, si direbbe, dello spirito, un po’ quella che secondo un noto nostro proverbio divide il mondo in pecore e leoni.
Da noi si dice “fallito”, una persona, cioè, che intrapresa una azione, un progetto, una azienda non è riuscito a portarla a termine: ha fallito. Nulla di definitivo, nulla di sottilmente psicologico. Un fallito può riprovarci, dopo aver capito le ragioni del proprio insuccesso, un loser, uno sconfitto non ci proverà mai neanche.
Una delle ragioni, ne sono profondamente convinto, dell’attuale stato di debolezza del pensiero europeo è nell’aver assunto troppe dosi, fatali, direi, di pensiero americano. Quel pensiero è sorto ed è stato plasmato da un lato dal sano pragmatismo inglese e dall’altro dal mito della frontiera, ovvero di un territorio smisurato e ricco che andava solo conquistato e reso civile.
L’Europa non ha è non ha mai avuto quegli spazi. È sempre stata, relativamente parlando di epoca in epoca, un territorio densamente popolato e civilizzato.
Un concetto di assistenza pubblica e generalizzata negli Stati Uniti non avrebbe mai potuto sorgere, semplicemente perchè non ce ne era bisogno: la vastità del territorio, la sua ricchezza, la semplicità di un uniforme sistema di regole sociali ha reso possibile l’idea che chiunque voglia possa essere un winner e se uno è un loser non ci sia nulla da fare.
L’introduzione nel titolo di un noto quotidiano italiano del termine “sconfitto” è l’ennesimo segnale della strisciante e continua pervasività di quel sistema di pensiero che qui da noi non dà frutti.
Se poi si pensa che nelll’intervista il rapper Rkomi il termine sconfitto non lo utilizza mai (Rkomi dice che a diciott’anni era incazzato dalla mancanza di quattrini sua, della sua famiglia e dei suoi amici), si comprende ancor meglio quanto quella pervasività sia subdola.
Riragionare sulle specificità europee, sviluppare nuovi paradigmi e nuove parole per immaginare il nostro futuro che non può e non deve essere quello americano (open space lavorativi ovunque – riduzione o azzeramento dei diritti e delle salvaguardie dei lavoratori, sanità privata, acqua privata, ecc, ecc) è un dovere per tutti noi, ricordando che se siamo ricchi, e lo siamo, lo dobbiamo alla nostra invidiata coesione sociale e non alle munifiche grandi aziende che tutto pensano e tutto fanno.
Augh.

Si pensa