Visitata la mostra di Vedova alla scuola di San Rocco e la Biennale.
Due visite molto diverse.
Vedova studiò Tintoretto a lungo e in parte lo riscrisse nel linguaggio del primo dopo guerra. Le sue piccole opere sono spettacolari. Tintoretto ne esce esaltato nella compiutezza architettonica.
I grandi pannelli del ciclo “Oltre” degli anni ottanta oggi mi convincono meno (per onestà ricordo ancora l’effetto potente che mi fecero quando li vidi la prima volta).
La Biennale, invece, è molta fotografia, grafica, video, e poca (pochissima) pittura. Il mio commento immediato è stato: qui Rodi, qui salta. Questo è.
La fotografia impera. E’ l’elemento primo, il mattone, l’atomo che con le proprie evoluzioni nutre la pittura o costituisce i filmati. Ora gli artisti traggono dai film i fotogrammi che poi stampati opportunamente costituiscono opere a se stante. Ma per ragioni a me ignote i filmati artistici non hanno dialogo, ma si costruiscono come somma, spesso accelerata (o rallentata) di immagini/fotografie. Il confine quindi tra artisti e registi passa per l’uso della lingua, della sceneggiatura. Questa distinzione ha senso? E’ difendibile? Non sembra.
Ma passeggiando per gli innumerevoli saloni inevitabile chiedersi cosa sia l’arte. D’altronde siamo qui per questo, per vedere e toccare cosa è l’arte oggi.
Danto da ultimo diceva (scriveva) che per essere arte ci vogliono tre cose: un significato (da comunicare); una poiesi specifica; un risultato emotivo. Fatto sta che nei risultati qui esposti spesso (spessissimo?) il terzo criterio manca. Di fronte a molte opere non si sente nulla, né gioia, né dolore, non rabbia o turbamento. Non si sente nulla certo anche per il frastuono dato dalle troppe voci presenti. Troppe. Troppo vicine. Innumerevoli.
L’arte oggi è fare oggetti, cose, cercando quindi spesso di invadere il territorio del design, anche se quasi sempre con ironia e buon gusto.
Anche la pittura fa cose, oggetti: i quadri, che proprio nella loro materialità sconfiggono la fotografia. La profondità della visione che la pittura ha sono di una dimensione superiore rispetto alla fotografia. Nella pittura (in tutta la pittura, anche quella apparentemente più piatta) c’è materia. Nella fotografia solo geometria.
Bonami dice che il padre dell’arte contemporanea è Duchamp. Molti la pensano come lui (che non per niente è mega direttore a destra e manca). Da pittore ne riconosco l’importanza dissacratoria, ma non lo sento come padre. Ma si sa che quegli stessi hanno più volte decretato la morte della pittura. Viene il sospetto che la pittura sia di per sé anti economica necessitando di tempo (molto) per essere fatta ed essendo per propria natura irriproducibile. E’ difendibile solo se ci si inventa un progetto, una idea, una corrente, cosicché l’intermediario (critico o gallerista che sia) non ha da vendere “una opera”, ma più opere. Il quadro di per sè non è un prodotto. La corrente o il progetto sì. Riproducibilità. La chiave sta lì. Siamo tanti ed ognuno, secondo critici e galleristi (quantomeno nei loro sogni commerciali), ha diritto all’arte.
Non per niente sempre Bonami (di cui ho comprato il deprimente “Mamma voglio fare l’artista”) dice che da Duchamp in poi vince l’idea e l’immaginazione. Io, nel mio piccolo, dico che vince la visione, la visione del mondo e la creazione del mondo da parte dell’artista, del proprio mondo. E il punto di caduta è che questo benedetto mondo che l’artista crea deve essere in stretta relazione col mondo che tutti abitiamo. Solo deve essere meglio, più bello, pulito, riconoscibile. Di qui l’emozione di cui parla Danto, che è l’emozione del riconoscimento, di quel processo fisico e psichico che Konrad studiò negli animali e che conduce il singolo (correttamente o erroneamente) a riconoscere l’altro come proprio.
Nella trinità di Danto ciò che fa premio è la poiesi specifica. Questo è il criterio, nascosto, dimenticato, sottovalutato, in nome del risultato. Duchamp, dice Bonami, è il padre dell’arte contemporanea perché l’ha liberata da questo vincolo tecnico. Col suo orinatoio ha innalzato la mente al di sopra delle bassezze della mano. Ma così facendo ha condannato tutto il movimento al generico, all’indistinto, alla moda, al racconto.
La risposta sembra essere che non esiste un valore assoluto nell’arte, ma che l’artista sopravvive nel tempo se e quando è riuscito ad interpretare meglio il proprio tempo, farsene rappresentante, personaggio, riconosciuto e riconoscibile e quindi per via storiografica riesce a rimanere nella storia dell’arte.
L’opera non rimane. Rimane l’artista (attraverso le proprie opere in tanto in quanto oggetto / farsi del riconoscimento)
Chi fa arte spesso parte dalla posizione opposta. Le opere (alcune) rimangono e di conseguenza l’artista. E’ un punto di vista, questo, tecnico, poieutico. Alcune opere hanno segnato la storia della propria tecnica, così come alcune pubblicazioni hanno cambiato il percorso del pensiero.
Oggi l’arte sembra rifiutare tutto questo, centrata come è sulla persona piuttosto che sulle opere, il cui valore in sé non esiste più.
L’artista rimane, invece, drammaticamente interessato alla cosa, perché l’arte (la pittura) è unicità e materialità e il “fatto bene” o il “fatto male” esiste, è lì, si tocca. L’opera è la compiuta sintesi di pensiero (specifico) e poiesi (specifico). Se ci si distrae, ci si perde. Il mondo non è un labirinto?
Condivido molto il tuo pensiero. Sono stato alla biennale in pieno agosto sotto un sole rovente. (Giusto un appunto su Vedova, di cui amo i grandi lavori informali, è molto bello il dipinto che hai postato. Avrei voluto vedere la mostra ma avevo tempi risicati; ho preferito Manet!).
Nei padiglioni dell’arsenale ad un certo punto nel Palazzo Enciclopedico mi sono perso; nel senso che ho smarrito ogni riferimento. Spazi e spazi di “idee” ed installazioni dove al primo impatto estetico di stupore subentra proprio lo smarrimento, tanto che ad un certo punto anche la panca dei visitatori ti fa venire il dubbio che possa essere parte dell’opera.
La pittura è poca, davvero poca e di tutta la sua fisicità non vi è traccia. Io sono rimasto molto perplesso in generale (pur non essendo un neofita); alla fine la biennale credo sia un grande carrozzone all’interno dl quale, ciascuno può seguire la propria indole e le proprie sensazioni. Convengo anche sul l’assenza delle parole e sul l’enorme senso di dispersione. Ma De Gustibus!
Resta di fatto che le Biennale è un palcoscenico quasi sempre contemporaneo uguale a quello che accade nella vita, per cui ci si trova di tutto.
Sull’idea che Duchamp sia il padre del contemporaneo in realtà ci siamo. È stato colui che ha rotto definitivamente quel rapporto tra artista e tela (oggetto), straripando nella quotidianità ed aprendo così la strada all’artista che si sostituisce egli stesso all’arte. Ne è un esempio Manzoni, le cui opere altro non sono (eccetto le linee e gli achrome) che “effetti” dei suoi gesti.
Duchamp dopotutto è attualissimo.
È brutto invece che si “rinneghi” in qualche modo il valore della pittura, la sua matericità, la superficie “limitata” dai bordi del foglio o del telaio a favore dell’idea e del concetto (altro grande mistero!).
Fondamentalmente dovrebbe coesistere tutto ciò che è arte e col concetto stesso si può esprimere tutta quella che è la gestualità rivolta a fini estetici, un gesto che possono fare tutti; il ruolo dell’artista lo decreta poi il mercato (con le sue leggi subdole), l’arte vera solo la Storia.
Ti lascio le mie impressioni a caldo della visita alla biennale
http://assolocorale.wordpress.com/2013/07/31/di-arte-di-biennale-e-di-altre-storie/
Duchamp ha rotto, è vero, il rapporto tra artista e opera, permettendo la sostituzione dell’artista con l’opera. C’era in lui una forte componente dissacratoria ed ironica che oggi nelle varie Messe cantate dell’arte contemporanea si nota sempre meno. Di qui a designarlo come padre francamente il passo è lungo e forse si tratta di un salto piuttosto che di un passo. Malevic col quadrato nero potrebbe essere se non un padre, uno zio. Matisse con l’uso dei colori leggeri fa certamente parte della famiglia. Picasso con la potenza del segno ha apero molte strade a riflessioni successive. Turner si è inventato, senza saperlo, gli impressionisti e di lì, giù giù gli informali. Duchamp? Le installazioni. Bene. Proviamo ad appendercele alla parete o metterle nel salotto dei buchi che chiamiamo nostre case. Polemico? E’ evidente. Ma quando manca la tecnica specifica, quando essa è demandata ad altri come nel caso di molti grandissimi artisti attuali (che non hanno botteghe, ma fornitori), allora l’arte intesa come forma estrema di artigianato non esiste più. Esiste qualcosa d’altro che sta tra lo spettacolo e l’architettura, ma che con la tecnica specifica ha poco o punto a che fare. N’est ce pas, mon ami? con stima sandro