Synecdocke New York è il primo film dello sceneggiatore Kaufman. Uscito nel 2008 negli Stati Uniti, arriva in Italia solo oggi, 2014, a causa di non meglio precisate beghe legali. Noi siamo andati nella fiducia delle cinque stelle cinque attribuite dal Corrierone nazionale.

Il film è il racconto della vita di un registra teatrale, geniale, ipocondriaco, depresso cronico, che, vinto un importante premio in denaro, decide di investire tutto nella non-rappresentazione di un non-testo teatrale gigantesco. Mi spiego: uscito dalla provincia americana, arriva a New York e affitta (compra?) un enorme struttura che adibisce a perenne palcoscenico per le interminabili prove di uno spettacolo che rappresenti la vita “vera”. Per questo allestisce, sempre a proprie spese, una compagnia teatrale che col tempo va allargandosi a decine e decine di attori o presunti tali a cui ordina di recitare episodi insignificanti (non legati tra loro) della vita che ciascuno di noi conduce o potrebbe condurre.

Insomma, il ragazzo va un po’ giù di testa. Non che prima non lo fosse, anche a causa delle vicende matrimoniali. Infatti, intanto che lui, il protagonista, è impegnato nella messa in scena di una innovativa versione del Commesso di Miller, la moglie decide che la propria natura è definitivamente lesbica e lo molla per trasferirsi, con l’amante e la figlia, a Berlino dove avrà un successo clamoroso come pittrice di miniature.

L’abbandono di lei in realtà, si intuisce, è anche causato dalla costante depressione di lui, depressione che sfocia in un numero decisamente notevole di gravi malattie psicosomatiche, di cui lei, la moglie, giustamente non si cura.  Nulla di veramente grave queste malattie, tanto che il film finisce con lui vecchio (e indovinate? depresso) che ha nel frattempo seppellito tutti gli altri protagonisti del film.

La pellicola è buffa (a tratti), incomprensibile, onirica, deprimente, eppure racconta bene la piscologia deviata di un signore perso in se stesso, che “si accorge” dieci anni dopo che la figlia gli è stata sostanzialmente rapita, che non sa risolversi rispetto alle donne che lo amano, che ha perso sostanzialamente il filo del discorso e non distingue più rappresentazione e rappresentato, contentente e contenuto, mischiando tutto in un mix nel quale l’unico elemento certo è che lui è il centro del mondo e che, delirio solipsistico, ognuno è una sineddoche del tutto.

Notarella finale: quando cinema e letteratura perdono il bandolo della narrazione e si fanno beffe della mai sufficientemente lodata sintesi siamo nel bel mezzo di una crisi epocale.  Da questo punti di vista Karl Kraus e i suoi “Ultimi giorni dell’umanità” insegnano, Non ci voleva Synecdoche per dircelo, ma anche ricordarlo non fa male. Magari anche solo per suscitare la tanto agognata reazione morale.

ps: l’ultima interpretazione di Philip Seymour Hoffman è tanto disgustosa quanto memorabile. Disgustosa perché questo era il personaggio, si intenda. Bravissimo.

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