Riceviamo una nuova recensione da Claudio Cherin che volentieri pubblichiam,o.


La scozzese Charlotte Wells esordisce alla regia affidandosi all’intimità di un viaggio fatto vent’anni prima con il proprio padre in un residence in Turchia.

Anche se Aftersun ricorda Somewhere di Sofia Coppola subito si comprende come quella di Charlotte Wells sia una storia diversa. E unica. Aftersun è, infatti, un viaggio fatto di lacune colmate dalla fantasia di una bambina, e dalla gratitudine per ogni piccolo gesto, ogni piccola scoperta.

In linea con l’animo dei propri protagonisti, l’intera struttura narrativa vive di sottrazione, i personaggi si svelarsi da soli, a tratti e con calma. Per questo anche le inquadrature sono in movimento, che amano perdere il centro, assurgendo a simboli di una vita ordinaria per un attimo finita fuori dall’equilibri.

Per fare questo la Wells allestisce gallerie di primi piani e riprese leggermente più ampie per raccogliere un senso di complicità intrinseca tra i vari personaggi, la macchina da presa che sposta il suo baricentro e trova un diverso equilibrio. Per raccontare la vita che scorre e la banalità e la meraviglia del quotidiano. È un film di attimi, Aftersun, che più che riportare in vita la memoria ‒una memoria in cui rifugiarsi da grandi, per riassaporare un momento in cui si era felici e non lo si sapeva ‒ la mostra come qualcosa di ‘eterno’ e di ‘duraturo’. La Wells ne racconta la durata. Non racconta il quadro malinconico che la memoria porta con sé. La ragazzina e il padre, ovviamente, vivono senza alcun indugio quei giorni senza pensa a cosa avverrà dopo.

Calum, il padre, nasconde la parte più vera, e dolorosa, di sé alla piccola Sophie. Le sigarette fumate con famelica ingordigia, e i primi segni di una depressione, sempre più dilaniante, sono lasciati al fuori campo visivo della piccola. Eppure, quel lato così fragile e sofferente che tenta di nascondersi alla vista della figlia, cerca anche di sottrarre agli occhi artificiali di una videocamera amatoriale, l’unica capace di immortalare la realtà oggettiva dei fatti.

Aftersun è un film ispirato a una storia vera, ad una vera vacanza fatta con il padre dalla regista; ciononostante, la bellezza della storia e del film risiede non tanto nel fatto nella sua natura autobiografica, che può essere ‒ senza dubbio ‒ ignorata, perché quel velo di ricordi lontani, e di nostalgia, sa diventare e essere storia a sé, che crea empatia negli spettatori.

Ogni immagine, ogni singola inquadratura dai colori sbiaditi, e dipinta da una fotografia dai sapori anni Novanta, memore di tante polaroid pronte a svilupparsi al ritmo di ricordi che riaffiorano dal buio della mente. Ma se il mondo che circonda i due protagonisti fa da indicatore temporale del periodo di appartenenza della storia (uno su tutti la colonna sonora, ricca di brani cult del tempo come My oh my degli Aqua, o Tender dei Blur) la storia di Calum e Sophie vive attraverso quel complicato rapporto fatto da un padre e da una figlia, attraverso un abbraccio stretto prima di un definitivo addio. Nei corpi distesi sulle poltrone di vimini del terrazzo. Nel letto condiviso. E nell’improvviso bisogno di solitudine del padre, che si alza e sta sul balcone fino a notte fonda. Ma anche nel sole, che prima questo scompaia tra le fila dell’orizzonte, viene reso immagine restituita con silente poesia e associazioni mentali dove il non detto, o il non mostrato, colpisce ancora più forte di parole pronunciate. La storia e la delicatezza del film vive, soprattutto, attraverso i due protagonisti Paul Mescal e l’esordiente Frankie Corio. Ma anche quei gesti così quotidiani che la regista ha saputo cogliere e attraverso i quali ha saputo raccontare un complesso nodo affettivo. Del resto non si sa molto della storia della separazione o della nascita della ragazzina, della vita prima della rottura con la madre. La storia è tutta negli atti. La storia è nelle piccole crepe che si hanno tra un padre e una figlia. Incomprensioni latenti. Labili. Quasi impossibili da rintracciare.

Nei dialoghi essenziali ed effimeri, nei loro movimenti eleganti, e a volte un po’ impacciati, nei loro sguardi che scrutano, si cercano e si nascondono, prende forma una realtà parallela, quella che prelude alla fugacità della vita, delle storie e degli uomini. Perché fatta di emozioni, di pensieri e di non detto. Paul Mescal non ha paura di mostrarsi fragile, a pezzi, proprio come il braccio del Calum, che interpreta. La giovane Frankie Corio svela le insicurezze e la potenza di quell’orda di sogni e speranze pronte a essere abbattute, tipiche di chi ha 11 anni. Sophie e Callum sono complementari e personaggi sempre in bilico, non del tutto pronti ad un processo catartico che gli permetterà di affrontare e superare la perdita. L’uno dell’altra. Per questo non possono far altro che stringersi in quel quotidiano che li protegge dal dolore che è sotteso e prossimo. E creare empatia per questo con lo spettatore. Del resto che cosa c’è di più durevole dell’abisso dell’effimero? Non è questo che attira da sempre gli essere umani?


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