Per il torinese Guido Gozzano – l’altro grande poeta crepuscolare, i cui motivi e la cui importanza, però, sono più ampi di questa definizione – la letteratura, la poesia diventano invece “lo spazio verso cui tentare una frustrante rimozione della malattia”: di una malattia storica, oltre che biografica; storica, perché la società in cui il poeta vive gli appare corrotta e meschina: appunto una società in crisi, in un tempo “smarrito e sull’orlo dell’abisso della guerra”, come scrive Piromalli; malattia biografica, poi, giacché anche Gozzano è tisico; e come Corazzini di tisi morirà, trentatreenne, nel 1916. In tale contesto di isolamento, Gozzano esprime il rifiuto della condizione poetica alla maniera di D’Annunzio: un rifiuto condotto attraverso la parodia e l’ironia applicate a un mondo e a un linguaggio poetico non più giustificabili, privi ormai di qualsiasi diritto di esistenza; un rifiuto che mescola registro aulico e prosaico, approdando a una poetica delle cose modeste e quotidiane, la cui ascendenza storica è pascoliana: soprattutto del Pascoli dei Canti di Castelvecchio, apparsi nel 1903.
Ne deriva una poesia colloquiale (e Colloqui si intitola la sua raccolta più importante), una poesia a carattere narrativo, destinata a essere ripresa da molti altri autori: da Saba a Montale e a Pavese, per citarne solo alcuni. Un ritmo poetico, evidentemente, adatto a quel “guardarsi vivere”, a quella scissione tra sentimento e ragione che proprio da lui – secondo il già citato Piromalli – vengono introdotti nella poesia del decadentismo novecentesco. Si tratta, in sostanza, di un’attesa della scomparsa definitiva che ci riconduce alla linea teorica che stiamo dimostrando: il poeta, infatti, è un sopravvissuto che
… fissa a lungo la fotografia
di quel sé stesso già così lontano.
“Un po’ malato… frivolo… mondano…
Sì, mi ricordo… Che malinconia.
Un sopravvissuto a se stesso, quindi.
D’altra parte, nel periodo considerato, la consapevolezza della netta separazione esistente in Italia tra società e cultura, o – se si vuole – tra politica e cultura, conduce alcuni intellettuali (Papini, Prezzolini, Corradini, Borgese…) alla fondazione, a Firenze, di alcune riviste (Leonardo, Il Regno, Hermes, La Voce): proprio con l’intento di produrre un nuovo moto di idee, sia nel campo dell’arte che in quello dell’impegno ampiamente sociale. Un tentativo, questo, destinato però a naufragare, soprattutto a causa del crescente spirito nazionalistico, teso anche a favorire (dopo il 1914) l’intervento italiano in guerra.
Una prima testimonianza della delusione del progetto di un intellettuale engagé, ovvero impegnato, è costituito dalla trasformazione della Voce, tra il 1914 e il 1916, nei suoi ultimi anni di vita, in un periodico esclusivamente letterario: la cosiddetta Voce “bianca”. È il segno che la pura letteratura torna ad apparire l’unico rifugio; ossia, per dirla con parole di Romano Luperini , “la presa d’atto – con la guerra – dell’impossibilità che la cultura influisca sulla realtà”.
Nasce così la poetica del “Frammentismo”, a monte della quale si trova la lezione della poesia decadente francese e anche – rieccoli – l’esempio di certa produzione di Pascoli e D’Annunzio; ai quali occorre aggiungere, però, la stessa concezione crociana dell’arte come “intuizione pura” (nonostante, lo si ricordi, la strenua battaglia antidecadente condotta dal grande filosofo abruzzese).
Arturo Onofri, il vero teorico del “Frammentismo”, nel 1915 cosi scrive sulle pagine della Voce: “Tutti i poeti vanno letti e gustati a frammenti, che tutti son frammentari, senza eccezione”; e continua: “si deve separare nettamente la poesia non solo da ogni altra attività umana, pratica o teoretica; ma prima di tutto, con un taglio netto, dalla letteratura. (…) Nella poesia non c’è nulla da capire, da spiegare, da tradurre, da commentare, da divulgare”. A questa concezione della poesia pura, del puro frammento, Onofri si adegua completamente nei suoi versi; come vi si adeguano anche i vari. Boine, Rebora e Sbarbaro, per non citarne altri.
Sbarbaro in particolare, con la raccolta Pianissimo, “esprime uno degli aspetti più inquietanti dell’uomo contemporaneo, sorpreso – scrive Frattini – nel calmo terrore di un progressivo inaridimento, vago di un’innocenza ormai perduta, sgomento di fronte al vuoto e al gelo dello spirito inerte, ove si specchia il mistero angoscioso del destino umano”.
Al riguardo si leggano, per esempio, i versi iniziali e quelli finali di Taci, anima stanca di godere:
Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’una e all’altra
vai rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di speranza,
e neppure di tedio.
(…)
La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduta ha la sua voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.