Questo è uno dei libretti della collana Miniature di Abscondita (casa editrice entrata a far parte del gruppo editoriale Electa), mirabile esempio di come si possa fare divulgazione artistica senza perdere un’oncia di rigore e professionalità.

Di queste 80 pagine circa un terzo è dedicato al saggio di M. Butor dal titolo “Le moschee di New York o l’arte di Mark Rothko”, il resto è materiale a firma di Rothko, come lettere, note, introduzioni a mostre, indicazioni su come collocare le proprie opere.

Leggendole si può seguire con esattezza il percorso attraverso il quale il pittore lettone naturalizzato statunitense è giunto alle conclusioni che tutti conosciamo.

Confesserò che le prime volte che mi sono imbattuto in quadri di Rothko ho pensato che fosse un gran furbetto: questa assenza di soggetto, questi accostamenti cromatici soffusi, questa aura meditativa me li faceva interpretare come un’arte da arredamento, l’esasperata conclusione del motto matissiano d’un arte borghese e riposante.

Leggendo questi scritti ho apprezzato meglio.

Il primo scritto, a firma congiunta Rothkowitz e Braddon (Braddon fu un gallerista – clicca qui per ascoltare una sua intervista su quel periodo) dice che ciò che univa il gruppo dei dieci era ‘l’opporsi al conservatorismo‘ cercando di vedere ‘cose ed eventi come se apparissero ai loro occhi per la prima volta, liberi da sedimenti dell’abitudine e dalle convenzioni di mille anni di pittura‘ . (1938) Rothko che era del 1903 qui aveva quindi già trentacinque anni – non un ragazzino.

Nel 1943 rispondendo ad un articolo critico apparso sul New York Times il nostro scriveva: ‘è nostro compito, in quanto artisti, fare in modo che lo spettatore osservi il mondo dal nostro punto di vista, e non più dal suo.‘ Che differenza, noto, rispetto a tutti coloro che si ponevano l’obiettivo di rappresentare il “vero” del mondo. E ancora: ‘siamo per l’espressione semplice di pensieri complessi. siamo per il grande formato perché ha la potenza dell’inequivocabile. vogliamo riaffermare la superficie pittorica. siamo per le forme piatte perché distruggono l’illusione e rivelano la verità’.

Una sorta di manifesto, quindi, cui seguirà come primo passo una serie di dipinti di soggetto mitologico, in maniera tale, dico io, da rendere tattile il proposito di vedere il mondo con occhi nuovi. In risposta alla domanda se i loro quadri non fossero altro che quadri astratti con titoli letterari, Rothko rispondeva che nè i suoi nè i quadri di Gottlieb andavano considerati dipinti astratti: ‘il fatto che si allontanino da una rappresentazioni naturalistica della realtà è un tentativo di conferire una maggiore intensità all’espressione del soggetto suggerito dal titolo, non di dissolverlo o di celarlo.’

Poi nel 1948 la svolta che in realtà a guardar bene altro non è che la naturale evoluzione: ‘l’evoluzione del lavoro di un pittore, nel suo spostarsi da un punto all’altro nel tempo e nello spazio, ha come obiettivo la chiarezza. Ossia l’eliminazione di tutti gli ostacoli tra il pittore e l’idea, e tra l’idea e l’osservatore.’

E ancora nel 1951: ‘i quadri che dipingo sono molto grandi. So bene che, storicamente, dipingere grandi quadri ha significato assolvere una funzione legata alla pompa e alla sontuosità. Tuttavia, la ragione per cui io li dipingo è diametralmente opposta: il mio intento è l’intimità e l’umanità. Dipingere un quadro piccolo significa situarsi al di fuori della propria esperienza, significa osservarla attraverso una lente che la rimpicciolisce e l’allontana. Un quadro di grandi dimensioni, in qualunque modo lo si dipinga, permette al contrario di entrare e far parte di esso. E’ ineluttabile.’

Eccoci arrivati al Rothko che tutti conosciamo.

Pubblicità