Sono la foto nella cornicetta d’argento appoggiata sul comodino. Sono la foto a una parete del soggiorno, la foto in cui io e lei ci abbracciamo sullo sfondo dell’Adamello, quando eravamo fidanzati. Sono la foto attaccata alla mia carta di identità, attaccata alla mia patente, attaccata alla tessera del Tennis Club. Sono la foto stampata sul badge: testimonia che sono entrato e sono uscito, che sono uscito e sono rientrato, nei lunghi anni del mio lavoro, infiniti. Sono le foto infinite di quando ero un bambino in bianco e nero, di quando avevo i capelli a banana, di quando indossavo un montgomeryno, di quando mi hanno rasato come un naziskin, prima che i naziskin esistessero, di quando ero affacciato al finestrino di un treno – la littorina, chi se la ricorda più? Sono nella processione dei corpi e dei volti incontrati e subito lasciati, conosciuti e subito dimenticati, o che non si possono più abbandonare, nelle loro trasformazioni crudeli, urlate dal tempo delle pellicole, e poi degli scatti digitali… O che non si vogliono lasciare – forse è più giusto dire così? Sono la foto nella cornicetta d’argento appoggiata al comodino, quella in cui avevo 35 anni. Come se fossi morto allora.