In arte la coscienza novecentesca dell’ampliamento del numero dei potenziali utenti e dei potenziali produttori ha fatto sì che gli artisti si siano progressivamente indirizzati verso idee riconoscibili e riproducibili.

L’unicum, con tutto il suo potenziale portato malaticcio di perversione voyeuristica, è divenuto nel tempo quasi disdicevole. L’opera, per essere tale, deve far parte di un “periodo” o di un “progetto”, di una “serie”, in maniera tale che l’utente, chi ne vuole beneficiare, possa scegliere il modello, la versione, il colore e in certi casi addirittura la forma.

D’altronde da sempre l’arte è una sorta di malattia mentale, una ossessione, una mania, che perseguita alcuni e non altri e come tale, in quanto mania e ossessione deve esprimersi in “serie”, in “progetti”, in seriali ripetizioni monotematiche e mono-ossessive.

Il variare, il dipingere oggi figurativo e domani astratto (per utilizzare una terminologia senza alcun senso da un punto di vista produttivo, ma ancora ahimè estremamente comprensibile e in uso), l’uso vario delle tecniche (da non confondere con la dea della tecnica: quella ‘mista’), il passare da acrilici ad acquarelli, a pastelli, a olio, senza concentrarsi, senza ripetersi, senza “scavare” è visto di per sè come superficialità, mancanza di mestiere, pressapochismo, tutta roba da espungere con forza dall’empireo dell’Arte.

Non mi stancherò mai di ripetere che si dipinge quel che si vede con gli occhi del cuore e della mente e questo significa che, salvo che non si sia in presenza di personalità fortemente compromesse, un giorno si possa dipingere qualcosa di allegro e il giorno successivo qualcosa di triste, un giorno si veda qualcosa che necessiti un certo modo di essere tradotto su tela o carta e il giorno dopo si vedano cose che necessitino altre tecniche.

L’essenziale è vedere e riprodurre e, come diceva Francis Bacon, non stancarsi mai di cercare l’Immagine, l’unicum, appunto.

 

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