Spettacolo culto del 1984. Così recitava l’invito del Piccolo Teatro di Milano.
Sapevo che doveva essere una stranezza: quale spettacolo teatrale dura 4 ore e 20 minuti e ti promette che dopo i primi 20 minuti puoi alzarti, lasciare la sala, ritornarvi, andare al bar, bere qualcosa e rientrare?
Oggi nessuno, che io sappia.
E così siamo andati e Il Potere della follia teatrale ha mantenuto la sua promessa folle.
Lo spettacolo si basa su simbologie abbastanza evidenti (specie se suggerite dal libretto di scena), una predominanza della simmetria, una lentezza esasperante, una ripetitività di gesti e di parola che per l’appunto permette l’uscita dalla sala e il rientro con la certezza di non essersi persi nulla di non già visto.
Teatro come fatica, teatro come annullamento della personalità dell’attore, teatro come ordine militare, teatro, appunto, come ripetizione infinita di gesti e scene sempre uguali.
Mentre si assisteva tutti in religioso silenzio al ripetersi del già detto e del già fatto, pensavo che la nostra resistenza e il nostro rispetto aveva molto a che fare con la scuola dell’obbligo di molti anni fa. Quando parlava il Professore tutti in silenzio. Se poi era il Preside in silenzio e in piedi. Noi anzianotti siamo abituati all’idea di dover sopportare per imparare. Oggi forse i ragazzi meno, ma questo poco ha a che fare con Fabre, ragazzo del 1958 (quindi mio coetaneo praticamente).
Confesso: siamo usciti a metà. Non che potendosi muovere, fare una pausa, la cosa fosse così insopportabile. Nulla a che vedere con la noia e il ribrezzo di alcuni film attuali o di qualche tempo fa (uno su tutti l’inguardabile Kitchen tratto dal bestseller di Banana Yoshimoto). No, lo spettacolo è talmente strano e pazzo e insensato nella sua supponenza da risultare anche affascinante per molti versi.
Data la stranezza, cercherò descrivendo quel che ho visto di rendere meglio l’idea.
Una scena consiste nel gruppo di attori che viene scaraventato giù dal palcoscenico da un altro attore. Tutti riescono a risalire, salvo una ragazza che di lì in avanti per un buon quarto d’ora d’orologio tenta ripetutamente di salire, ma viene sempre respinta dal cerbero che ributtandola giù grida inesorabile: 1876! Intanto che questo accade gli altri dietro stanno fermi impalati (almeno credo). Quindici minuti di tentativi di saltare su, quindici minuti di respinte e lanci di sotto, quindici minuti di lui che grida 1876! Poi, dopo averle tentate tutte, la ragazza improvvisamente recita Anello dei Nibelunghi e può salire e unirsi agli altri attori. La legenda dice che la prima rappresentazione dell’opera di Wagner fu quella durante la quale per la prima volta la sala fu oscurata e le uniche luci illuminavano il palcoscenico. L’invenzione del teatro, quindi.
Altra scena, altri quindici minuti buoni: intanto che gli attori al centro del palcoscenico reggono, uno ciascuno, una pila di piatti bianchi (loro sono vestiti di nero) e ci salgono sopra e fingono di mangiare e ripetono all’infinito questi gesti, sul proscenio due attori, un maschio e una femmina, che si sono autobendati, vanno su e giù sul ciglio del palcoscenico ad incontrarsi al centro della scena. Quando si incontrano il maschio, dotato si un grosso coltello da cucina, cerca di ammazzare la femmina che schiva il colpo. Dopo il tentativo i due si separano, tornano ciascuno per il proprio verso ai lati del palcoscnico per poi tornare a camminare sul bordo in direzione l’uno dell’altra. Quando si incontrano il maschio cerca di ammazzare nuovamente la femmina, ma non ci riesce e così via. La scena termina con la rottura dei piatti da parte degli attori che al centro hanno continuano imperterriti a far finta di mangiare.
Ho dato una idea? credo di sì.
Che dire? Dico che per troppo tempo (e ancora adesso) la cultura occidentale ha perso il senso del gioco e della leggerezza, della comprensibilità. Della famosa cipolla dantesca è rimasta solo, a seconda dei casi, solo o il primo strato esterno o il nocciolo più interno, ma si è persa quella capacità di mischiare nello stesso ambito, nella stessa opera ,gioco, ironia e significati profondi. Certa arte e certo teatro fanno di se stessi religione, rappresentazioni cui assistere in silenzio e accettazione passiva.
per la verità, l’altra sera vedendo lo spettacolo di Fabre ho anche pensato che l’autore non solo avesse previsto più baccano in sala, suggerimenti, commenti salaci, sfottò et similia, ma che addirittura questi interventi dissacratori fossero necessari alla perfetta rappresentazione dell’opera stessa.
Non so. Mi piacerebbe sentire l’opinione di Fabre stesso, anche se so bene che questa resterà una mia curiosità.
Insomma vale la pena vedere questi spettacoli? Se avete pazienza e curiosità da vendere sicuramente sì. Se siete stanchi e della cultura di trentanni fa non vi interessa un fico, state a casa che è meglio.