Chi di solito bazzica questo blog sa bene che non mi occupo di politica o sociologia e raramente di economia. Qui si parla solo di pittura, di poesia e letteratura e, ogni tanto (come spettatore) di cinema e teatro. Non ho ambizioni da politologo o sociologo, anche se evidentemente ho, come tutti, le mie idee.

Ciò nonostante questa volta sento il bisogno di dire qualcosa. Perchè? Perché questa volta è diversa dalle altre? Perché mi sento così coinvolto, ancor più coinvolto, rispetto ai ben più sanguinari attacchi delle torri gemelle e dei treni di Madrid e di Londra?

Perché da un punto di vista simbolico questa volta l’attacco è al cuore del nostro modo di vivere. Scrivere, pubblicare, sbeffeggiare, pensare è l’occidente, è la nostra cultura, siamo noi, ben più che andare a lavorare in grattacieli o viaggiare in metropolitana.

E poi la Francia siamo noi, è l’Europa. Senza la rivoluzione francese e i lumi nulla di tutto questo sarebbe stato possibile.

Ecco perché questa volta mi sento così colpito da spingermi a questi sproloqui.

Un paio di cose mi pare rimangano sul campo insieme alle macerie e alle povere vittime. La prima è che se questa è una guerra, come ormai tutti dicono, allora non si può giocarla solo in difesa, ma bisogna anche attaccare.

Attaccare chiarendo, come fa bene Romano sul Corriere oggi, che il fronte di questa guerra non è in Europa, ma in Africa, in Medio Oriente, in Asia. E là che bisognerebbe essere di più, meglio, con le idee più chiare. Idee più chiare sul come agire, non sul perché agire. Dobbiamo agire là (in Nigeria, in Siria, in Etiopia, in Iraq, in Afghanistan) perché è là che conquistando territori i nostri nemici creano le proprie ricchezze e le proprie sicurezze con cui finanziano questa guerra. Esserci di più significa convogliare risorse a questo fine, compresi se necessario i nostri figli, però prima bisogna capire come fare.

Non l’abbiamo ancora capito, infatti, come fare. L’Africa e il Medio Oriente non sono il Sud America, la cui cultura locale era ed è largamente a matrice europea. L’approccio statunitense al Sud America in Africa e Medio Oriente non funziona. E’ più complicato, complesso. Le società sono antiche e frazionate. I ceppi sociali numerosi e spesso in conflitto tra di loro, sia per ragioni religiose che economiche. Intervenire e andarsene non funziona. Finanziare un qualche possidente locale non funziona. L’abbiamo visto in Iraq con Hussein e in Libia con Gheddafi. Siamo all’alba di un nuovo colonialismo? Può darsi, non so. Non è il mestiere. Certo che intervenire, credere di aver messo a tacere e andarsene non ha funzionato e temo non funzionerà. Però è chiaro che bisogna intervenire.

E poi attaccare chiarendo che questo non è uno scontro tra civilità. Qui non c’è una civiltà che si contrappone ad un’altra. Qui c’è la barbarie che si contrappone alla civiltà. Punto.

Se per civiltà intendiamo il sapere, il conoscere, il dialogare, il confrontarsi, il discutere, il pensare, l’innovare, il rispetto, la convivenza, l’integrazione, la libertà, qui c’è una unica civiltà in campo. La nostra. E veniamo attaccati da chi non crede nella civiltà. Con la notazione grande e ben sottolineata che la stragrande maggioranza dei musulmani del mondo condivide la civiltà, è loro quanto è nostra.

Ci abbiamo messo secoli, per non dire millenni, per conquistare questa civiltà. Non buttiamola perché spaventati e in ansia di fronte alla violenza.

Stiamo fermi su questo fondamentale punto. Non indietreggiamo dando patenti di cultura e civiltà a chi non ne ha. Far saltare in aria una bambina per uccidere altre persone non è civiltà. E’ un modo stupido di condurre una guerra.

Questo è soprattutto il momento di prendere coscienza che convivere non significa integrarsi e che di questo secondo fenomeno sociale abbiamo disperatamente bisogno. Integrazione. Integrazione significa aprirsi, permettere anche alle minoranze di poter partecipare alla politica, al potere. Da questo punto di vista se si pensa che qui da noi ci è voluta una legge dello stato per obbligare l’integrazione tra i sessi, per aprire i posti di comando anche alle donne, si ha la misura dello sforzo e della strada che dobbiamo ancora percorrere.

I musulmani vivono da decenni in Francia, ma si sono poco integrati, sembra. Convivono. Hanno i loro quartieri, le loro strade, ma la rappresentanza sociale e politica è poca e saltuaria.

In Israele la minoranza araba ha il 20% circa della popolazione dei cittadini dello stato ebraico, ma non ha ancora avuto una rappresentanza politica all’altezza delle istituzioni maggiori. Cercano di convivere, ma non di integrarsi.

Ci vorrà molto tempo, forza, coraggio e impegno, impegno soprattutto a non perdere il nostro patrimonio più prezioso: la capacità di ragionare sui dati di fatto, sulle cose, senza fanatismi o isterie.

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