Riceviamo da Claudio Cherin la sua recensione del lungometraggio Miracle. Eccola.
Bogdan George Apetri, al suo terzo lungometraggio, con Miracle – Storia di destini incrociati, presentato nella sezione Orizzonti della Mostra di Venezia 2021, è ora nelle sale italiane, offre al pubblico un’opera ambientata nella Romania contemporanea.
Una donna piange, si vede il suo riflesso nell’acqua del catino. Si capisce che ci si trova in una stanza di un convento, la donna è una suora.
Giunge una consorella (Nora Covali) che porta alla giovane donna un cellulare, sappiamo che il nome della ragazza è Cristina (Ioana Bugarin), e che l’aspetta un taxi, vicino alle mura del convento. Il tassista (Valeriu Andriuţă), fratello della consorella Mina, ha fretta, ogni mattina porta il dottore del villaggio in città. Il dottore e la suora faranno il viaggio insieme.
Durante il percorso il dottore parla del suo quotidiano, della moglie, delle sorti della Romania. Cristina guarda sempre davanti ha sé. Un gregge di pecore invade la strada e sotto un ponte la giovane donne ha la possibilità di cambiarsi.
Si capisce presto che Cristina non va in ospedale perché soffre di emicranie, come dice al dottore, ma perché deve fare una visita ginecologica: deve capire come e cosa fare, visto che ha scoperto di essere incinta.
Questo si capisce solo ad un certo punto, lo spettatore rimane sulla porta dello studio della ginecologa, sente un qualche dialogo. Poi c’è uno stacco e si vede Cristina, che ha fretta e vuole tornare al convento. È andata alla polizia e ha chiesto di un ispettore, poi è giunta in un appartamento e ha chiesto dell’ispettore. Forse il padre del bambino che aspetta. Sulla porta è compare la moglie e i due figli, Cristina capisce che non ha altro da fare se non tornare in convento.
Prende, così, il primo taxi che trova.
Il tassista da persona bendisposta e gentile si dimostra presto un carnefice: in un bosco ferisce con una pietra la donna.
A questo punto, c’è uno stacco: il volto di un uomo compare a tratti dal catino, lo stesso che era nella camera della suora, che si sa in ospedale. È un ispettore di polizia di nome Marius Preda (Emanuel Pârvu) che vuole incastrare il tassista per lo stupro e la violenza alla giovane Cristina. Parla con la consorella e con tono duro le chiede se conosca il motivo per cui è uscita dal convento.
È ossessionato dall’idea di fare giustizia, non si fa scrupoli a disseminare prove false, per incastrare colui il quale sa essere l’artefice del male e che ha colpito la giovane suora.
Addirittura va nell’ospedale dove la giovane donna è in fin di vita, e la spinge a testimoniare. Dirò che hai annuito davanti a questa immagine, dice, dopo averle fatto vedere una serie di uomini, tra cui quella dell’uomo che tiene in arresto preventivo.
Alla rassegnazione di tutti quelli che gli sono intorno, Marius contrappone una granitica ostinazione nel bisogno di non cedere e di non affidarsi a qualcosa di divino. È un segno, dice il poliziotto che lo accompagna, il segno che Dio ci ha voltato le spalle. Ha mai visto una suora picchiata e aggredita in quel modo?, chiede il poliziotto all’ispettore, che infastidito lo fa scendere dalla macchina.
A questo punto, sulla scena del crimine, Marius Preda si guarda intorno e vicino al pilone del ponte getta pezzi del fanalino della macchina del colpevole.
Ritorna sulla scena del crimine con lo stupratore, il fotografo e due agenti.
L’ispettore si bagna la faccia nel fiume. Senza mezzi termini cerca di convincere il tassista a confessare.
Il finale sembra prendere una piega giustizialista degna de Il cattivo tenente (Abel Ferrara, 1993): Marius fa inginocchiare il tassista e gli spara alla nuca. Ha il tempo di sciacquarsi la faccia e vedere un’ombra, che ricorda in tutto la giovane suora, che pochi minuti prima ha saputo essere morta. Non è dato sapere come che quello che è apparso sullo schermo come un fantasma, o come un miracolo (o forse si tratta solo di un sogno ad occhi aperti di Marius?), riporta l’ispettore alla scelta più giusta: lasciare in vita il colpevole e lasciarlo libero.
Il primo film di Apetri, Periferic, è nato da un soggetto di Cristian Mungiu, dunque, non è forse un caso che la messa in scena in Miracle appaia debitrice delle soluzioni formali del regista di 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (2007). Il regista cerca di trattare la protagonista della prima parte, e il suo dramma intimo, con discrezione, fatta di campi lunghi e panoramiche che si fermano sulla soglia dell’orrore, senza mai mostrarlo in pieno – quella a 360 gradi nel bosco è una piccola lezione di regia. L’utilizzo dei piani sequenza che seguono le vicende di Cristina e di Marius, invece, vengono direttamente dalla scuola dei Dardenne e sono un mezzo per ancorare a una concezione realistica il racconto filmico.
Dall’altro lato, invece, si mostrano i due rispettivi punti di vista dei protagonisti dell’opera, che sono anche le due visioni di mondo che Apetri sembra interessato a mettere a confronto. Il materialismo laico e disperato del detective in opposizione alla fede spirituale, colpita da un male atroce, eppure incrollabile.
Attorno a questa dialettica ruotano anche i dialoghi del film e, sebbene Apetri sembri assecondare maggiormente, attraverso le scelte formali, le posizioni materialiste, alcuni artifici lontani da questo crudo realismo estetico, dichiarano il reale pensiero dell’autore
Il film inizia infatti con l’immagine capovolta della suora protagonista, riflessa in una bacinella d’acqua e sul finale il riflesso della stessa suora appare, nel momento del miracolo, in un ruscello. La struttura narrativa è ciclica: il regista inserisce il film in un tempo del mito, un tempo fatto di ritorni e simmetrie, orientato da una concezione spirituale/magica della vita. Per questo la crudele vicenda si trasforma in una piccola parabola cristiana sulla necessità del perdono e sulla bontà di una donna, che per tutto il film è stata trattata dagli uomini, solo come un corpo.
In una simile prospettiva i riferimenti all’attuale confusione politica rumena e alla necessità della venuta di un leader per la patria, puntellati dalla musica tradizionale della nazione, risultano espressione di un realismo e di un materialismo sociale, che ha nutrito buona parte dei paesi comunisti.
Alla fine è la fede che si manifesta attraverso un’immagine riflessa a ristabilire un senso morale all’ordine sociale, fa intendere la regista. Che in tutto quel mondo concreta – a musica, il paesaggio che sembra scostante e indifferente, e lo stesso cielo apatico e velato di una giornata che sembra distante – non ha posto per altro se non per se stesso.
È il cinema a poter ricostruire il tessuto sociale attraverso un rispetto formale per la legge, che anche se non si identifica con la giustizia, è la base necessaria per mantenere la democrazia, luogo nel quale le donne non sono solo corpi nelle mani degli uomini. E dove gli istinti più biechi non vengono superati, ma semplicemente ricondotti entro l’ordine costituito, a sua volta violento e disperatamente bisognoso di un miracolo.
Miracle non è privo di tensione emotiva come altri film rumeni: Apetri riesce a creare una sensazione di urgenza che aumenterà durante il film, prima di finire con un intenso colpo di scena. È impressionante il modo in cui il regista renda il pubblico consapevole dello scorrere del tempo e di come tutto avvenga contro il tempo.
L’ossessione dell’investigatore per la risoluzione del caso (tanto da fargli prendere delle libertà con il giusto processo) che potrebbe far pensare se ci sia un secondo fine alle sue azioni. Invece, le sue interazioni con gli altri personaggi (suore, medici, vari colleghi e l’uomo che si ritiene sia il colpevole) si trasformano in una critica sociale, creando un conflitto tra la visione schietta del detective della realtà e l’inefficace fatalismo, fede e superstizione che sembra aver permeato le province rumene.
Oltre alla sceneggiatura di Apetri, uno dei grandi punti di forza del film è la recitazione. Bugarin è sicuramente una delle giovani attrici più promettenti della Romania, dopo la sua parte principale in Mia Misses Her Revenge di Bogdan Teodor Olteanu e il suo ruolo fondamentale in Otto the Barbarian di Ruxandra Ghiţescu. Guardandola, sentiamo la profonda crisi in cui è scivolata la vita di Cristina, il contrasto tra il suo desiderio di farsi suora e la sua gravidanza indesiderata. Ma ancora più impressionante è Pârvu (che è anche regista e il cui secondo lungometraggio, Mikado, sarà proiettato al Festival di San Sebastián). Pârvu, infatti, offre una performance impressionante che potrebbe benissimo fargli vincere un Gopo Award come miglior attore nel 2022 o nel 2023, a seconda che Miracle uscirà nelle sale nazionali quest’anno o il prossimo.