Qualche sera fa visto al cinema Mignon di Chiavari, unica sala superstite delle cinque che rallegrarono la mia infanzia e adolescenza.

La proiezione è preceduta da un breve saluto di Spielberg che ringrazia tutti gli spettatori usciti di casa per andare a vedere il suo ultimo film, definito il più intimo e intenso da lui mai diretto, raccontando la storia della sua infanzia, adolescenza e giovinezza, fino all’alba dei suoi esordi da regista.

E in effetti The Fabelmans risulta proprio così: intimo ed intenso. Per lunghi tratti si ha l’impressione di assistere ad un superotto di casa Spielberg, con il racconto dell’atmosfera e dei giochi e scherzi tra fratelli. Ovviamente un superotto con le palle, ma pur sempre con un approccio didascalico tipico dei filmati familiari.

Poi man mano che il protagonista cresce e le vicende familiari si intrecciano fino alla loro non inattesa conclusione, il superotto cede al film vero e proprio e assistiamo ai suoi primi lavori, al trasloco in California, ai suoi amori liceali (l’amore con una ultracattolica è un vero e proprio spasso), alla sua decisione di abbandonare l’università per dedicarsi definitivamente al cinema.

Il film andrebbe mostrato nelle scuole agli adolescenti e ai ragazzi. Si fa continuamente un gran parlare, televisivamente e non, del “sogno”, che ognuno debba inseguire il proprio sogno con coraggio e determinazione, e anche questo film apparentemente glorifica questo approccio, ma, ma, a mio modesto e sussurrato avviso, quel che dobbiamo insegnare ai ragazzi non è tanto “sognare” (sognarsi ricchi e famosi, grandi registi, o pittori, o imprenditori), quanto il fare ciò che piace. Se in giovane età un ragazzo e una ragazza esprimono il piacere di fare qualcosa, sia esso uno sport o una attività artistica, ecco quello che dobbiamo insegnare loro è di insistere, approfondire tecnica e mestiere, continuare, farlo il più possibile, migliorando e trovando in nuove sfide ciò che dà loro piacere.

Il padre di Spielberg iniziò, ci racconta il regista, aiutando quella sua passione e regalandogli cineprese, ma, arrivato il figlio al dunque, arrivato, cioé, alle soglie dell’età matura e dell’università gli consigliò di studiare qualcosa di serio. Cosa che il figlio fece per un po’ prima di ribellarsi.

Non aveva sogni: voleva solo continuare a fare ciò che gli piaceva e ciò in cui aveva già dimostrato di essere bravo: il cinema.

Bello, quindi, intenso, intimo, divertente e, nella storia del mènage à trois della madre anche drammatico. Da vedere insomma. Vale assolutamente in biglietto.

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