Due poesie un po’ datate, ma mi pare sempre attuali.
La prima.
Dopo cinquant’anni che bisogno c’è
di descrivere con precisione
lo strazio dei corpi non corpi
delle carni strappate, della fame
che nei giorni ha mangiato
polpacci, cosce, toraci, la pena
infinita degli sguardi spenti
dei sopravvissuti?
Non si può dire solo e soltanto
rabbrividendo, spiffero del freddo
che monta la sera e che teniamo
a forza fuori, lontano da noi
dalle nostre belle casette:
LAGER, GUERRA.
Non si può. Non si deve.
Bisogna ripercorrere
la strada già vista, ricordarla
passo per passo, da chi votò,
da chi tacque, da chi applaudì,
da chi ordinò, da chi eseguì,
da chi sparò, da chi aprì,
da chi sotterrò i loro corpi
i loro corpi.
Troppo grande lo scempio
troppo nostro perché si possa
chiudere porte e finestre
e sperare che primavera ritorni.
Non torna.
La seconda.
Chi abbia come me leggera
incoscienza del mondo, di ciò
che in esso in disparte riposi,
osservi, superando l’ovvio ribrezzo,
con cura e pazienza, le ossa
scavate, il biancore del rivolo
di carne ad esse attaccato
gli sguardi fermi nelle occhiaie
più secche che nei campi
albergarono distesi, fissi, morti.
Tutto questo d’un tratto ci solleva
leggeri, impalpabili, eterni,
quasi che la nostra vita sia ferma
per un poco fermata da un tocco
sbilenco alle lancette del tempo.
Noi si è là dentro quei campi
nella pena del fetore dei morti
noi si è là nelle spianate
coperte dall’assordare dei colpi
noi si è là, negli uffici dove
i timbri e le firme dissero
tu ci sei e tu, mi spiace, non sei più-
La legge, i decreti, tutti gli apparati
di chi sa, conosce quel che la legge
vuol dire, ecco questo in quei corpi
rivive. Da questo e dagli spari,
dal silenzio sacrale che l’ordine
impone, dallo sguardo affaticato
di chi la legge applicava, da tutti
i meccanismi sociali, dalla leggera
incoscienza del mondo, Iddio sempre
ci salvi.










