Sandro Frera blog dal 2006

pittura, letteratura, cinema e altro

Il senso del viaggio: parte diciottesima

  • Esuli alla deriva.

Poco da raccontare negli ultimi anni, piuttosto molte immagini da vedere.

Immagini che scorrono velocemente sulla televisione. e ci mostrano le icone dei viaggiatori nuovi, nomadi, immigranti: scene che continuano a rimbalzare oltre la situazione sulla quale ci hanno appena lasciati, posandosi per qualche secondo: una carretta del mare strapiena di neri; esuli in coda con gli occhi stralunati in un centro di prima accoglienza, poveretti abbarbicati alle reti dei tonni dove hanno trovato scampo nel naufragio del loro gommone.

Queste vicende sono vicine a casa nostra; colpiscono poichè i superstiti in questo momento stanno lavorando come muratori a Bergamo, a Zurigo o nella raccolta di pomodori a Napoli, Siviglia, Atene: attualizzati nel nostro tempo, “presentificati” (M. Augè) ovvero “messi al presente”. I poveracci che tentano la via di Gibilterra, quella dallo SriLanka o quella per gli Stati Uniti sono immagini piu’ sfumate, lontane, durano ancora meno nei notiziari delle TV domestiche e quindi nei nostri pensieri, nei nostri ricordi: eliminati dal tempo improduttivo.

Rimaniamo sempre impressionati, dopo duemila anni, dall’ idea del vallo di Adriano in Inghilterra, costruzione ideata per fermare i barbari del nord: opera audace, ambiziosa; fondamentalmente inutile, così come la linea dei francesi aggirata dai tedeschi nella Seconda Guerra. La Grande Muraglia in Cina, costruzione d’ altri tempi, visitata oggi come un capolavoro dell’ ingegno umano ha molte analogie col muro che divide il Messico dagli Stati Uniti; col muro di Gerusalemme, o quello di Cipro. Tirar su una divisione per troncare i rapporti coi vicini, smarcarsi, non permettere il proprio spazio agli adiacenti.

Sappiamo che nella storia le popolazioni che si sono evolute piu’ rapidamente, arricchendosi e diventando guide della civiltà, sono state quelle piu’ aperte al nuovo, al commercio, agli altri. Le città che si sono evolute in maniera esponenziale l’ hanno fatto poichè disponevano di un porto efficiente, o erano costruite su vie di comunicazione primarie, porte d’ ingresso spalancate sul mondo. Da Alessandria d’ Egitto a Genova, Macao o Nuova York.

Non stiamo piu’ parlando di viaggi in questo momento. Parliamo semplicemente di possibilità di spostamenti, di migrazioni. Cosa concettualmente molto piu’ semplice del viaggio d’ esperienza, ma al tempo stesso molto piu’ drammatica poichè lo sradicamento dalla propria terra diviene una necessità di sopravvivenza, non un anelito di conoscenza. Nelle prime pagine della Bibbia la parola “straniero” è citata piu’ di trenta volte. Stessa cosa nel Corano. Naturalmente l’ accezione di diverso, di “straniero” è in questi casi positiva, portatrice di valori, non certo denigratrice delle popolazioni diverse. Basti pensare al Cristo nuovo, risorto, che ritorna come straniero ad Emmaus per presentarsi alla sua comunità. Ai viaggi di Maometto. All’ itinerare continuo di ogni maestro di fede in Oriente. Ogni religione, al di là dei comportamenti dei singoli adepti, svolge un ruolo extraterritoriale e ha uno spirito di universalità che la contraddistingue.

Il rifiuto dello straniero non è paura della diversità, quanto semplicemente paura di perdere ricchezza e privilegio. La prova è il fatto che nei nostri viaggi turistici siamo proprio alla ricerca della diversità: quella diversità che ci diverte, ci stuzzica, ci interessa, se a rispettosa distanza. Diversità che semplicemente non deve venire in casa propria, non si commistioni a noi e alle nostre famiglie, alle nostre città per non espropriarci i nostri beni, le nostre figlie, le nostre abitudini. Nulla è cambiato, dai ghetti ebraici nelle città alle apartheid piu’ recenti. I “viandanti a Praga” del quadro di Longaretti (2004) sono identici ai viandanti dell’ antico medioevo, a quelli che fuggivano dalla peste nel Seicento, agli emigranti irlandesi che si imbarcavano per fame nei secoli scorsi; all’ esodo degli armeni come a quello odierno delle popolazioni eritree che fuggono il Corno d’ Africa.

Solo la velocità è cambiata. Solo i tempi di reazione, televisivamente bruciati in pochi istanti fanno la differenza con i racconti degli esodi della storia. Tutto qui. Tutto molto più rapido, e quindi più indolore. La velocità televisiva, con l’ incalzare delle notizie l’ una in coda all’ altra è un anestetizzante dei nostri anni, il tempo usato come un utensile di lavoro. Le immagini dei barconi, non diverse dalla Stultifera Navis di vecchia memoria, sono semplicemente sostituite di volta in volta con immagini ancora più agghiaccianti di altri barconi, di altri esodi, di altre migrazioni ancora più drammatiche, ancor più epocali.

Ciò che è enormemente accellerato è la velocità del resoconto di viaggio, non tanto del viaggio stesso. Il tempo dell’ esodo fisico, del viaggio di avvicinamento è ancora quello di una volta; il tempo del barcone alla deriva, le giornate della carovana a piedi, le salite sui valichi di montagna per tenersi lontani dalle dogane sono sempre basate sul tempo del tragitto: il tempo del racconto, invece, è diventato bruciante, risolto per autocombustione immediata. Il resoconto si esaurisce in qualche decina di secondi di un servizio televisivo. E quando un viaggio non lo si può piu’ raccontare nel suo svolgimento significa che non ha più senso, non è più esperienza trasferibile agli altri: è solo passaggio doloroso sui corpi dei compagni, attraversamento di morte, notizia più grave di quella dei telegiornali precedenti, fotografie più impressionanti di quelle del rotocalco della settimana appena passata. Il racconto di viaggio non è più quello del viaggiatore che si racconta, del soggetto del viaggio che tramanda le proprie esperienze, ma la descrizione del giornalista esterno, del reporter; la migrazione è una notizia in mezzo ad altre, nè migliore nè peggiore, soltanto veloce.

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