- Il viaggio romantico
“ Ancora un giorno e partirò; libero alfine dei mille vincoli, più immaginari che reali, da cui l’uomo puerilmente lascia incatenare la propria volontà: Partirò per ignoti paesi già da tempo frequentati dal mio desiderio e dalla mia speranza. Come l’uccello, cui appena infrante le sbarre della sua stretta prigione la fantasia stimola le ali intorpidite, ed eccolo spiccare il volo attraverso lo spazio.Felice! Cento volte felice il viaggiatore…All’artista più che ad ogni altro conviene rizzare la sua tenda per un’ora, e non costruirsi una dimora solida in alcun luogo. Non è egli sempre straniero fra gli uomini?”
Così scrive Franz Listz, il virtuoso errante, sulla Gazette musicale 16 luglio 1837
Il tema del viaggio romantico lega la ricerca del “sè” interiore all’ educazione dei classici greci, l’ “io” artistico all’ estasi del paesaggio: Venezia come la Sicilia, le ville romane come il Peloponneso, l’ Etna come i quadri di Firenze.“Io non vivo in me stesso ma divengo parte di ciò che mi circonda” (Lord Byron).
Ecco come il racconto della propria esperienza è una doppia ricerca del “se” e dello “sconosciuto”: si viaggia per fuggire i propri fantasmi e per incontrarsi con degli altri nuovi, per lasciare la propria casa e avvicinarsi all’ esotico, per costruire la “propria” personalità “dimenticandola”. Trovare la nuova via attraverso la tradizione; trovare il conosciuto nello strabiliante. L’ impulso è un anelito, un desiderio, un bisogno ambiguo e ambivalente; nel Bildungsroman non si riesce mai a capire fino a che punto il viaggio sia una “fuga da” o una “ricerca di” qualcosa. Sicuramente si tratta spesso di entrambi i motivi contemporaneamente.
Il Seicento era un secolo sostanzialmente immobile. Per questo la sua arte era lussureggiante e compensava quella staticità reale attraverso forme mirabolanti, diagonali; i quadri immobili raffigurano istantanee di azioni improvvise, i versi di Marino “scappano fuori” da tutte le parti. L’ arte che in qualche modo “non basta più” in realtà colma i vuoti di una saldezza morale e materiale di un secolo solo esteriormente sbrindellato ma interiormente saldo e composto. Il romanticismo invece getta un ponte tra l’ azione vissuta e quella che si descrive, tra il viaggio reale e quello immaginario, tra la vita reale e quella artistica. Si cerca la propria via d’ espressione artistica attraverso il percorso reale sul quale ci si è incamminati e si cerca la propria vita reale attraverso la via artistica.
Questa equazione segna bene l’ ambiguità di fronte alla quale ci troviamo per tracciare i confini tra il reale e l’ immaginario del viaggio romantico. I vecchi parametri di verosimiglianza sui quali si accapigliavano i classici del Seicento, dalle unità di Aristotele al Cid di Corneille, a Madame Scudery e a Racine non valgono più. I nuovi metri di misura sono completamente diversi; l’ ambizione è addirittura quella di non farli vivere, di non tracciare il confine con lo sconosciuto ma di assorbirlo in sè.
L’ Ottocento vive ancora la fusione di una vita inconscia e manifesta, entrambe leggibili ma non ancora distanziate, non ancora scisse nei loro campi rispettivi. Da Wilde a Barbey d’Aurevilly si sentono cadere le unità di luogo, azione e verosimiglianza, di pruderie e di sicurezza, gli incubi dell’ inconscio si agitano disordinati. In clima pre-freudiano, pre-novecentesco, il mistero non è ancora dato dal rapporto del sogno con la persona che l’ha partorito: mistero è ancora il sogno di per se stesso, in quanto tale. Da Artemidoro a Poe il sogno è solo una possibilità inagguantabile, astratta, è qualcosa di tragico o divertente, noioso o stimolante ma non è ancora la chiave che apre le porte dell’ immaginario. ( Il fannullone di Eichendroff non resiste al proprio sogno e nelle ultime pagine del racconto si sveglia; il viaggio biografico di Mozart verso Praga di Morike a poco a poco assume le vesti più comode del sogno: dove le differenze?)
Difficile segnare i confini tra un viaggio autobiografico e uno letterario. Il viaggio reale del personaggio Guglielmo Meister è in realtà quello letterario di Goethe. L’ avventura amorosa di Enrico von Ofterdingen è quella artistica di Novalis. La fuga del protagonista dello Scapolo di Adalbert Stfter è in realtà un ritrovamento dell’ autore e della sua scrittura; la ricerca della personalità di Andrea von Fershengelder nei Ricongiunti è quella del romanzo per Hugo von Hofmannshal, e così via.
Sappiamo che nella realtà la distanza che corre tra il viaggio in letteratura e quello nella vita reale è grande, incolmabile. La distanza tra il testo e il viaggio sta nello spazio concreto, fisico del viaggio reale. Un libro non sarà mai un vero viaggio: ciò che vi manca è l’ esperienza della fatica, della prova, del viso bruciato dal sole, non certo il sogno o la fantasticheria dei luoghi lontani.[1]
Il romanticismo ripercorre il viaggio da Nord a Sud di Shakespeare, compiendolo realmente nella persona degli autori – non solamente attraverso i protagonisti delle opere; ma i confini tra autobiografia e immaginazione, tra professione, fantasia e scrittura, sono molto ambigui. Le note antinomie del Romanticismo, algolagnia sessuale di godimento e di sofferenza, trasgressione e rigore, spirito antico e bisogno di rinnovamento, natura e uomo, titanismo e vittimismo, ambivalenze nella persona stessa dell’ artista, nel mito dell’ Imperatore vivente e nel battersi per gli oppressi, le ritroviamo anche nel tema del viaggio.
In ogni grande romanzo della tradizione ottocentesca-romantica, nello svolgersi del racconto si assiste immancabilmente ad un preciso momento: quello che fa coincidere la “crisi” del protagonista con l’ avviarsi all’ epilogo della narrazione. Pausa necessaria all’ uno per compiere la sua scelta e all’ altra per risolvere i percorsi interni del proprio svolgimento e avviarsi alla conclusione. Questo momento di ‘crisi’ giunge quando la tensione è stata portata all’ estremo grado, quando sono stati inseriti tutti gli ingredienti della trama: allora Pierre Besùcov come Madame Bovary, Anna Karènina o Julien Sorel, Lucièn de Rubempre’, Nanà o Lucia Mondella, tutti quanti i protagonisti del grande romanzo ottocentesco insomma, giungono ad una soglia che segna il momento di una decisione: fuggire o restare, tacere o parlare, abbandonare o rimanere, morire o mantenersi in vita, ecc. Passare, o non passare questa soglia, da parte del protagonista, segna la differenza tra il concetto di fuga della narrazione novecentesca rispetto a quello di viaggio (e quindi ritorno) dell’ Ottocento.
Nei romanzi del secolo scorso, arrivati a questa soglia si rinuncia e si torna indietro; non la si passa. Si ritorna. Il protagonista ritorna nel suo ambiente, rimane nella sua vita. Il romanzo, così, si “chiude” nello stesso mondo – geografico (ritorno alla provincia), religioso (ritorno a Dio), sociale (ristabilimento del protagonista alla sua classe d’ origine), convenzionale (matrimonio), morale (ritorno al bene, pentimento) – nel quale era iniziato. Facciamo un esempio perché appaia chiara quale sia, in un romanzo classico, questa “soglia” critica della fuga o del rimanere. Cito dall’ Idiota di Dostoijeski:
“ Il principe fu contentissimo di rimanere finalmente da solo. Sceso dalla terrazza sulla strada, l’ attraversò ed entrò nel parco; voleva meditare un poco prima di decidersi a compiere un certo passo. Disgraziatamente questo “passo” non era di quelli su cui si possa meditare; era anzi di quelli per cui si decide senza riflettere: gli era venuta a un tratto una voglia irrefrenabile di piantare tutto e fuggire subito, immediatamente, senza salutare nessuno, di tornare là donde era venuto, lontano lontano, in qualche paese sperduto. Presentiva che, se fosse rimasto pochi giorni soltanto là dov’ era, quel mondo in cui egli si trovava l’ avrebbe inghiottito, né più egli avrebbe potuto tirarsene fuori. Se non che dopo solo dieci minuti di riflessione riconobbe che era “impossibile” effettuare il suo progetto: che una fuga sarebbe stata né più né meno che una pusillanimità”.
Come si vede questa bella frase riassume d’ un sol colpo tutte le tensioni e i punti di rottura psicologico-narrativi citati più sopra. Tutto lo svolgimento precedente del romanzo era stata una amplificazione, una “gradatio” di motivi che dovevano portare a questo momento di crisi dell’ eroe: negato questo, si torna indietro verso la conclusione, il romanzo rifluisce ordinatamente nei suoi ranghi.
Quest’ eroe ottocentesco non è piu’ certo, l’ eroe epico al di sopra degli avvenimenti, che mai sente il momento della crisi. L’ eroe ottocentesco vive proprio la contraddizione del superare se stesso per ritornare alla normalità. E’ però ancora ugualmente “eroe”: è ancora eroe il protagonista romantico che affronta gli avvenimenti, che si dibatte, che lotta. Può esser perdente ( ma ciò non toglie che rimanga eroe), può esser vincente ( e anche così la sua tipologia non cambia). Certo non è piu’ il sovrumano eroe mitologico, salvatore della società e superiore ad essa. Ma non è ancora l’ anti-eroe, cioè l’ outsider del nichilismo che troveremo in futuro. La speranza dell’ eroe romantico, pur con tutti i dubbi e i tentennamenti, è ancora quella di modificare l’ esistente, il suo desiderio è ancora quello di restare, di ritornare, di poter cambiare le cose nel proprio mondo d’ origine e far sentire la propria voce nel suo paese, tra i suoi simili – oppure morire. La sua vita è ancora, vuole ancora essere, quella della società dove è nato.
[1] “Io cadevo spesso in interminabili fantasticherie di lontane crociere e viaggi, e pensavo come sarebbe stato bello essere in grado di parlare di paesi lontanissimi e selvaggi… e come sarebbe parso misterioso e romantico il mio viso bruciato dal sole!” dice Melville nella Nave di vetro.