Partiamo proprio da quest’ultimo caso, che è poi quello del Futurismo. Marinetti, il suo “inventore”, sposando con il mito della macchina l’irrazionalismo e l’attivismo, assegna decisamente all’arte un ruolo subalterno, in vista di un mondo completamente meccanizzato.
Ecco ciò che egli scrive nel 1909, su Le Figaro, nel primo “manifesto” del nascente movimento: “La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno”; e, ancóra: “vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di Ciceroni e d’antiquari”. Nel secondo “manifesto” del Futurismo, del 1912, Marinetti aggiunge: “Dopo il verso libero, ecco finalmente le parole in libertà (…). Dopo il regno animale, ecco iniziarsi il regno meccanico dalle parti cambiabili”.
Come si può intuire, l’annullamento dell’autore – dì cui si parlava – è qui l’annichilimento stesso dell’”umano”; come necessità impellente di un’evoluzione, di un “flusso vitale” che sembrerebbe spingere proprio in tal senso. E Marinetti ci appare quasi la versione meccanica di D’Annunzio: un suo “replicante”, diremmo oggi, privo di anima e tutto preoccupato di sottolinearlo. Come acutamente scrive Binni (1968, p. 169), “Marinetti batte continuamente sulla nuova civiltà meccanica e ne costruisce un mito propulsivo della propria poetica: crede così di uccidere l’io letterario e la psicologia, sostituendo loro l’ossessione lirica della materia”.
Chi, invece, si preoccupa per la propria evanescenza o insufficienza, chi si interroga sul proprio essere uomo e poeta, fa parte di un movimento, anzi un’atmosfera – non una scuola, si badi –, che il critico Borgese (su La Stampa del 10 settembre 1910) definisce “crepuscolare”. Ma leggiamo alcuni versi del romano Sergio Corazzini, uno dei suoi esponenti più significativi:
I.
Perché tu mi dici: poeta? Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?
(… )
VII.
Oh, io sono, veramente malato!
E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per essere detto: poeta, conviene
vivere ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire. Amen.[1]4
Quanto distante è qui l’ideologia vitalistica di stampo dannunziano! E quanto vi è demistificata l’affermazione – sempre dannunziana – che “il verso è tutto”; qui, infatti, il verso è “impossibile” o è “niente”!
La difficoltà di fare poesia, per Corazzini, è la difficoltà stessa di vivere; e l’andamento spezzato dei versi che abbiamo appena letto assume il ritmo dei singhiozzi. Vi troviamo, semmai, il D’Annunzio del Poema paradisiaco, accanto al Pascoli del Fanciullino; per non parlare, poi, dei simbolisti francesi. In definitiva, la distanza tra vita e letteratura si rivela completamente abolita: e questa non sarebbe una novità; ma lo diventa di fronte al baratro di un nulla promesso dalla malattia (ecco la terribile scoperta); malattia che non è solo fisica (Corazzini morirà ventunenne, nel 1907, di tubercolosi), ma soprattutto esistenziale. Dalla profondità di noi stessi, vorrebbe dirci Sergio Corazzini, possiamo attingere la medesima disperazione che è fuori di noi, intorno a noi: nessun’altra verità, nessun mistero; e nessuna distanza, quindi, tra vita e morte.
[1] S. Corazzini, Desolazione del povero poeta sentimentale, in: S. Corazzini, Poesie edite e inedite, Torino, Einaudi, 1968.