Sandro Frera blog dal 2006

pittura, letteratura, cinema e altro

La poesia del novecento in Italia. Uno sguardo. VII

La formula della “letteratura come vita” che riassume l’Ermetismo fiorentino prende in Mario Luzi le sue vesti più originali e il suo senso più profondo. Nei suoi primi lavori, durante gli anni trenta, la poesia si configura infatti come “conoscenza per cifre e barlumi, ’per speculum in aenigmate’, dell’essenza trascendente del mondo”; ecco: la trascendenza, appunto; e l’intuizione – di matrice cristiana – di un “infinito ‘fieri’ della, creazione” di un continuo, anche se misterioso donarsi del creatore al mondo. Soltanto in una seconda fase Luzi, nel tentativo di interpretare l’”occasione metafisica nel mondo” – l’espressione è di Baldo Meo – si troverà a fare i conti “con una realtà sconvolta e lacerata” in cui si stenta a riconoscere l’impronta del divino; e dove l’ottimismo, la prospettiva di fidente attesa, tipiche del primo periodo, lasciano spazio a una voce in cui si avverte la ricerca di un’”epica salvazione”, attraverso un’avventura umana sempre più tormentata (siamo ormai negli anni del secondo conflitto mondiale):

(…)

Mi trovo qui a questa età che sai,
né giovane né vecchio, attendo guardo
questa vicissitudine sospesa;
non so più quel che volli o mi fu imposto…

Così ha inizio, per il poeta, quella svolta da lui stesso indicata come “un passaggio visibile dalla contemplazione alla discesa nei problemi del mondo”: la discesa “nel magma”: titolo della raccolta del 1963 che rappresenta la vera rottura di Luzi rispetto ai modi precedenti.

La necessità di una ripresa di contatto con le cose del mondo, ovvero con la concretezza del reale quotidiano, era però già in atto in alcune esigenze ed esperienze letterarie, già a partire dai primi anni quaranta, durante gli anni della guerra; e aveva generato il movimento chiamato Neorealismo: etichetta che, come si può immediatamente intuire, proponeva un collegamento con il realismo ottocentesco; e si sviluppava sulla necessità di un impegno integrale. Impegno al quale corrispondeva, sul piano etico, la centralità dell’uomo: non però dell’uomo ‘astratto’, quanto piuttosto dell’uomo ‘sociale’. Scrive Quasimodo, in un suo intervento del 1946: “Rifare l’uomo: questo è il problema capitale. Per quelli che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita, uno che sale di notte le scalette della sua torre per speculare il cosmo, diciamo che il tempo delle ‘speculazioni’ è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno”.

Era come se l’Ermetismo facesse l’autocritica per bocca di uno dei suoi massimi esponenti! – il quale, peraltro, avrebbe sancito il suo definitivo distacco da tale poetica con il Discorso sulla poesia del 1953. In definitiva, se la poesia degli anni precedenti la guerra si era racchiusa in un’estrema difesa della parola pura, coltivando un’ultima illusione lirica fino al totale rifiuto di ogni dato storico e sociale (e ciò, si badi, anche per non dover scendere a compromessi con la cultura ufficiale del Fascismo); invece la poesia (e l’arte in genere) del dopoguerra sceglieva la strada opposta.

In tale direzione, la rivista bolognese Officina (pubblicata tra il 1955 e il 1959) cercò di porre le basi di una letteratura veramente civile, “alla luce di un concetto di ‘impegno’ più ampio e comprensivo di quello rigidamente politico di (…) Quasimodo” e di altri intellettuali a lui vicini. Si trattò di un’esperienza, soprattutto per il contributo di Pier Paolo Pasolini, dalla quale nacquero l’idea e l’esigenza di una poesia che uscisse dal “Novecentismo” ossia dalle poetiche del periodo compreso fra l’inizio del secolo e il Neorealismo.

Di questa linea ‘antinovecentista’ e all’interno di una poetica che si fa portavoce del popolo, anzi: dei diseredati, Pasolini dà la prima testimonianza ne Le ceneri di Gramsci, del 1967, da cui è tratta la seguente poesia:

Nella vampa abbandonata
del sole mattutino – che riarde,
ormai, radendo i cantieri, sugli infissi
riscaldati – disperate
vibrazioni raschiano il silenzio
che perdutamente sa di vecchio latte,
di piazzette vuote, d’innocenza.
Già almeno dalle sette, quel vibrare
cresce col sole. Povera presenza
d’una dozzina d’anziani operai,
con gli stracci e le canottiere arsi
dal sudore, le cui voci rare,
le cui lotte contro gli sparsi
blocchi di fango, le colate di terra,
sembrano in quel tremito disfarsi.
Ma tra gli scoppi testardi della benna,
che cieca sembra, cieca
sgretola, cieca afferra,
quasi non avesse meta,
un urlo improvviso, umano,
nasce, e a tratti si ripete,
così pazzo di dolore, che, umano,
sùbito non sembra più, e ridiventa
morto stridore. Poi, piano,
rinasce, nella luce violenta,
tra i palazzi accecati, nuovo, uguale,
urlo che solo chi è morente,
nell’ultimo istante, può gettare
in questo sole che crudele ancòra  splende
già addolcito da un po’ d’aria di mare…
A gridare è, straziata
da mesi e anni di mattutini
sudori – accompagnata
dal muto stuolo dei suoi scalpellini,
la vecchia scavatrice: ma, insieme, il fresco
sterro sconvolto, o, nel breve confine
dell’orizzonte novecentesco,
tutto il quartiere… È, la città,
sprofondata in un chiarore di festa,
– è il mondo. Piange ciò che ha
fine e ricomincia. Ciò che era
area erbosa, aperto spiazzo, e si fa
cortile, bianco come cera,
chiuso in un decoro ch’è rancore;
ciò che era quasi una vecchia fiera
di freschi intonachi sghembi al sole,
e si fa nuovo isolato, brulicante
in un ordine ch’è spento dolore.
Piange ciò che muta, anche
per farsi migliore. La luce
del futuro non cessa un solo istante
di ferirci: è qui, che brucia
in ogni nostro atto quotidiano,
angoscia anche nella fiducia
che ci dà vita, nell’impeto gobettiano
verso questi operai, che muti innalzano,
nel rione dell’altro fronte umano,
il loro rosso straccio di speranza.

Anche sul piano prettamente stilistico, poi, Pasolini cerca una via non convenzionale, se non addirittura polemica contro “la campagna di acculturazione e ‘omologazione’ condotta dal potere neocapitalistico” tendente – secondo il poeta – a eliminare “qualsiasi sopravvivenza di modelli preindustriali”.

Ecco spiegata, allora, la necessità di adottare una lingua che sia sempre “al di sopra o al di sotto” di quella della normale comunicazione”; insomma: “una lingua spostata verso il dialetto e l’espressionismo dialettale oppure, all’opposto, verso il sublime, secondo la legge della mescolanza degli stili che Pasolini ricava da Contini”45. Per completezza d’informazione, però, occorre rilevare come Pasolini non riesca – sul piano teorico – a formulare in modo chiaro e convincente questa sua proposta, che egli definisce “neosperimentale”.

3 risposte a "La poesia del novecento in Italia. Uno sguardo. VII"

  1. Caro Frera, è stata una bella sorpresa – e ne sono rimasto colpito – vedermi citato nel suo blog. L’ ho scoperto facendo un po’ di “googling”. Grazie davvero per la sua attenzione al mio lavoro critico, invero sfortunatamente un po’ discontinuo.
    Un caro saluto
    Baldo Meo

    1. Carissimo, dato che non amo prendermi meriti non miei le dirò che il mio unico pregio è stato quello di leggere e pubblicare (come ha visto a rate) una conferenza che il mio amico Tarcisio ha scritto qualche tempo fa. Dato che la conoscevo come poeta non mi aveva stupito vederla citata. non c’è bisogno di dirle che questo povero blog sarebbe felice di ospitare un suo testo. a rileggerla Sandro Frera

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