Quando fui giovane non amai Proust. Quel suo inizio con la candela che si spegne e l’attesa del bacio materno era talmente noioso e soporifero e insistito, specie se confrontato con l’opera buffa iniziale di Musil o alla sacra atmosfera che accompagna la comparsa di Mulligan sulla e dalla torre di Sandycove, da respingermi immancabilmente verso il sonno più profondo.
Io amai Joyce per primo, epico e coraggioso, e Musil dopo, coinvolgente e ironico, ma anche, ovvio, Tolstoj, sinfonico, e Dostoevskij, ma, per lunga pezza, no, Proust proprio no.
Poi con pazienza (ché ci vuole pazienza!) tornai alla Ricerca e rimasi fascinato dalla purezza, dal chiarore, dalla nitidezza della sua scrittura, nella stupenda sua traduzione di Raboni.
Quando, per esempio, a pagina 81 di “Un amore di Swann” Proust scrive: “… Non andava da lei che di sera, e non sapeva nulla di come impiegasse il suo tempo durante il giorno, nulla più che del suo passato, tanto da mancare persino di quella piccola informazione iniziale che, consentendoci di immaginare ciò che non sappiamo, ci stimola a un’indagine. ….”, ecco che il piacere, il piacere fisico dell’intelligenza si manifesta in pienezza.
Nessuno come Proust ha levigato le pagine fino a renderle opalescenti come madreperla. Nessuno ha curato tanto caratteri, sfumature, ma soprattutto la qualità della lingua e della scrittura, la benedetta e santa lingua che tanto e sola ci distingue dagli altri vertebrati stolti, apparentemente iridescenti alla luce riflessa degli schermi televisivi o dei computer.
La proprietà di linguaggio è l’anello di congiunzione che muta qualità in quantità e fa del pensiero pane dell’anima.