benjaminUn paio ancora di cose su “L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica” di Walter Benjamin.

La prima in realtà è una citazione (pag. 21 dell’edizione Einaudi PBE) che Benjamin trae da Paul Valery autore di questa osservazione: <<Come l’acqua, il gas o la corrente elettrica, entrano grazie ad uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si manifestano a un piccolo gesto, quasi un segno, e poi subito ci lasciano>> (tratto da Pieces sur l’art, Paris, 1934 p.105).

Questa citazione colpisce per la preveggenza – nel 1934 la televisione era appena nata (1925) . Solo una mente acuta come Valery poteva prevederne l’attuale evoluzione. Colpisce , però, soprattutto per l’accostamento delle immagini e dei suoni ai bisogni cosiddetti primari del mangiare, del vedere e dello scaldarsi. Ormai è evidente che sia così. I nostri figli e noi stessi “mangiamo” filmati e musica in continuazione.
La seconda è a mio avviso un errore che Benjamin, ripreso peraltro da Cotroneo su Sette del 11/04/14. La riproducibilità tecnica dell’arte non toglie nulla all’arte, anzi ne amplifica gli effetti, esattamente come i continui passaggi televisivi a carattere pubblicitario non riducono il desiderio dell’unicum, della “tua” auto, del “tuo” profumo, ma lo moltiplicano.
Cotroneo racconta che nel 2007 il signor Lowe, un inglese che ha studiato alla Ruskin di Oxford e lavora a Madrid, ha condotto il miliardario francese Pinault a visitare il refettorio benedettino di San Giorgio Maggiore, dove aveva fatto installare una copia fotografica esatta delle Nozze di Cana che il Veronese aveva dipinto  proprio per quella sala.  Una copia perfetta, dicevo, indistinguibile dall’originale per freschezza di colori e precisione di dettagli, ottenuta fotografando in grandissima definizione l’originale al Louvre, dove Napoleone l’aveva collocato, dopo averlo rapito dalla sua prima sede.
Cotroneo, citando Benjamin, si chiede se tutto questo non toglierà valore all’opera d’arte e chiude domandandosi se al termine di questo processo di riproduzione saremo più ricchi o più poveri.
Paul Valery
Rispondere a questa domanda è semplice: saremo più ricchi, allo stesso modo in cui oggi siamo più ricchi complessivamente di quando le calze di seta erano appannaggio solo di pochissime dame.
La diffusione di buone o ottime copie d’opere d’arte ci renderà certamente più ricchi (compresi gli artisti). Il non riconoscerlo significa essere affetti da quella incomprensione profonda delle masse e della civiltà di massa tipica di certa sinistra elitaria e di certa destra riottosa. Le opere diffuse faranno sì che quell’aura religiosa di cui parla Benjamin che avvolge le opera d’arte di rafforzerà e la gente farà (fa) la fila per vedere da vicino – anche solo per un attimo e nella confusione più completa – ciò che da sempre considera (giustamente) in parte anche proprio. L’originale vedrà acuita la propria forza dettata dalla univocità, non il contrario.
A controprova un “nanetto” personale: anni fa a New York vidi le signorine di Avignone di Picasso, quadro già visto e rivisto, studiato e analizzato, amato a fatto mio in copie e cartoline. Ebbene di fronte all’originale l’esperienza fu tanto coinvolgente da meritare certo il termine “mistica”. Così è stato per me. Così è ogni giorno per quella massa gigantesca che visita le mostre dei grandi e rifugge quelle degli sconosciuti. Ama l’arte, quella folla, esattamente come si ama una cosa già propria: la si ricorda volentieri e volentieri se ne parla. Poi appena si può si “rivive”.
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