Anteo, Milano, venerdì sera, spettacolo delle 20,30. Settimane fa. “A causa del protrarsi del precedente evento, la proiezione del film avrà inizio con 30 minuti di ritardo”

Data la lentezza del film di Paolo Franchi, l’annuncio è  stato, se vogliamo, profetico.

Trecento persone accampate nei corridoi del cinema. C’è di peggio, molto peggio, però…

Fatto sta che finalmente il film ha inizio e assistiamo al rientro in famiglia di una donna adulta per il compleanno dell’ anziano e ricco e famoso padre, nonché vedovo.

L’idea di centrare il film sui rapporti padre famoso e figlia,  sul tema dell’ idea di sé,  sul controllo dei sentimenti,  sulla necessità di prendere una boccata d’aria, una pausa di riflessione, specie quando si rimane orfani in età matura, sulla passione repressa in onore della famiglia, ecco tutto questo intriga ed è ben scritto e ottimamente recitato.

Se però si cerca un film con ritmi da secolo ìn corso, questo non è il vostro film.

Franchi rallenta progressivamente non solo il vissuto dei protagonisti (mentre lascia invariati i ritmi dei comprimari), ma anche le loro azioni a sottolineare, immagino, il vuoto e il silenzio interiore sofferto.

Vedendolo dentro di me dicevo: nessuno oggi lavora e vive a quei ritmi, si alza con quella pacatezza,  sposta i fogli di lavoro con quella estenuante lentezza.

Questo è al contempo il pregio stilistico e il suo difetto maggiore. Sembra di essere precipitati indietro negli sceneggiati anni 60, maigret, nero wolfe, quelle scene quasi sempre in interni a vedere le quali uno inevitabilmente dice: suvvia, muoviamoci!

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