Nuova recensione di Claudio Cherin.
Un pastore entra in chiesa e va dal vescovo per comunicargli che ha trovato una guida che lo accompagnerà e lo aiuterà a costruire la chiesa, per la quale viene mandato sull’Isola. Il vescovo, che si comprendere essere danese, ricorda al giovane pastore, di nome Lucas, di adeguarsi agli usi e ai costumi della popolazione locale e di stare attento: gli islandesi, a causa del clima, addirittura si dimenticano di dormire, sostiene. Inizia così la terza pellicola di Hlynur Pálmason, che ‒ dopo i convincenti Winter Brothers (2017) e A White, White Day (2019) ‒ racconta il viaggio del pastore protestante danese Lucas (Elliott Crosset Hove, già protagonista del primo film di Pàlmason) nei territori impervi islandesi intorno al 1870.
Per tutto il film Lucas documenta con degli scatti il suo viaggio. Scatti che sono stati ritrovati recentemente e che servono a mostrare l’impervia bellezza e ferocia dell’Isola. La natura impervia non è l’unico ostacolo: c’è la lingua e un’estrazione culturale che fanno da ostacolo al giovane pastore. Gli islandesi, che si trova davanti, non hanno nessuna volontà di essere ‘colonizzati’ né di diventare ‘civili’.
Per mostrare questo Hlynur Pálmason pone due antagonisti al sacerdote Lucas: uno è la guida islandese Ragnar (Ingvar Sigurdsson indimenticabile protagonista di A White, White Day) che utilizza la barriera linguistica per manifestare la propria ostilità e il danese Carl (Jacob Lohmann) proprietario terriero che vede minacciato l’equilibrio familiare con le sue due figlie Anna (Vic Carmen Sonne) e Ida (Ida Mekkin Hylnsdottir, figlia del regista).
Nella prima parte del film sono le condizioni metereologiche e gli eventi naturali (il grande freddo, la difficoltà di guadare il fiume e arrampicarsi sulle rocce, una spettacolare eruzione vulcanica) a caratterizzare le traversie del pastore Lucas; nella seconda sono i conflitti con la gente del luogo a fare precipitare drammaticamente gli eventi.
Il viaggio diventa sempre di più un momento in cui emerge una lotta impari tra il cuore puro del pastore, la sua ostinata volontà e il carico di violenza e crudeltà della natura islandese. Che il regista rappresenta mai come uno sfondo, mai si addentra nel descriverla, perché, pur essendo protagonista, farebbe perdere di vista la storia.
La morte di un compagno di viaggio, la morte di un cavallo a cui si rompe in una strada impervia la zampa e il soffio della morte che si avvicina bruscamente sullo stesso Lucas, ne fanno un uomo piagato nel fisico, costretto dalla natura selvaggia a mettere da parte la sua passione per la fotografia e la lettura. Lucas si trasforma lentamente in uno uomo lacerato dalle proprie ossessioni.
Pálmason utilizza il formato 4:3 e le riprese in 35 mm per creare questo effetto sia per ricordare le fotografie ottocentesche, sia per rendere più forte la stretta al cuore del giovane pastore.
Nel giro di poco tempo Lucas si trova senza più punti di riferimento morali e i primi piani rivelano un perenne conflitto tra le proprie aspirazioni e la durezza della realtà. La natura è sempre visibile, sempre presente, mentre lo scorrere del tempo si mostra attraverso il cadavere di un cavallo che si decompone. Al cielo e alla bellezza dell’Islanda corrisponde l’immagine acre della decomposizione del cavallo. In fondo le contraddizioni e i contrasti netti sono parte della stessa terra islandese. In due scene la macchina da presa ruota di 360 gradi: la prima volta quando Lucas, sfinito, cade da cavallo e il regista mostra gli altri che in fila indiana si allontanano e il paesaggio tutto intorno che indifferente brilla di una luce cristallina. La seconda volta, invece, la camera ruota a 360 gradi per mostrare i diversi personaggi ballare all’interno della chiesa in costruzione.
Quando la costruzione della chiesa inizia, Lucas è già cambiato nell’animo, e di conseguenza anche nella fisionomia. Sembra invecchiato. E si mostra sempre di più infastidito dalla presenza e dal modo di fare di Ragnar (Ingvar Sigurdsson). Forse il voler essere come uno degli apostoli che tanto lo animava si è definitivamente spento. L’odio, invece, nei confronti di Ragnar si fa sempre più evidente. Non che ci sia stato un momento in cui i due siano andati d’accordo. Da quello che si può comprendere Ragnar è un uomo semplice e povero, vissuto in armonia con quella terra e in quella terra da sempre. Che vede e vive con un certo disinteresse la civilizzazione danese.
Di Lucas non sappiamo molto. Perché sia stato scelto per questa colossale avventura. O quale sia il suo passato. Potrebbe essere una prova della sua fede, l’essere stato mandato in una terra ostile per costruire una chiesa. Oppure fugge da qualcosa che il diventare un pastore luterano gli ha permesso di dimenticare.
Durante una domenica, in cui si sono radunati gli abitanti del luogo, gli uomini si sfidano alla lotta, usanza tipica e godereccia del luogo. Ragnar sfida Lucas che dimostra il suo odio. Qualche tempo dopo lo scontro tra i due continua, scatenato da una richiesta modesta di Ragnar: essere fotografato. Lo scontro porterà alla morte di Ragnar e l’inizio della discesa in un’ossessione sempre più grande che prende, sempre di più, il giovane pastore.
La fotografia di Maria von Hausswolff che fa risaltare la meraviglia dei paesaggi islandesi e le musiche minimaliste di Alex Zhang Hungtai che scandiscono il tempo come una condanna, oltre alla giusta scelta dei personaggi fa di Godland, Nella terra di Dio un film sulla inconciliabilità tra il mondo istintuale e quello intellettuale e sul fallimento di un percorso di fede all’interno di un microcosmo selvaggio. Perché, forse, di fronte a tanta terribile bellezza non resta che chinare il capo.
Belle queste scelte di film fatte da claudio cherin: non ne può pubblicare due a settimana?
Noi aspettiamo altre recensioni dei film
Altri film islandesi che ci consigliate?
Ma scrivi anche recensioni o giudizi per case edtrici, ho un romanzo nel mio cassetto