Da Claudio Cherin riceviamo questa recensione del film di McDonagh Gli spiriti dell’isola.
Cinque anni dopo il trionfo di Tre Manifesti a Ebbing, Missouri nel quale spicca la superba interpretazione di Frances McDormand, Martin McDonagh ritorna al cinema con il film Gli spiriti dell’isola (titolo originale The Banshees of Inisherin).
Inisherin è un’isola immaginaria, rocciosa e selvaggia, al largo delle coste irlandesi ‒ nella realtà il film è stato girato ad Achill Island e ad Inishmore, la maggiore delle Isole Aran‒ che evoca, come suggerisce il titolo originale del film, rituali magici, fantasmi e leggende, in una terra variamente popolata di leprecauni, folletti, divinità e creature fiabesche come le banshees, figure del folklore irlandese, che non si mostrano mai agli esseri umani ad eccezione dei familiari di coloro che sono prossimi alla morte, portandone il tragico presagio. Nel film di McDonagh ve ne è una, un vero e proprio angelo della morte: l’anziana donna che, in mantello e cappa nera, fa le sue sporadiche apparizioni, è l’annunciatrice di luttuosi eventi.
Gli spiriti dell’isola sono in realtà i personaggi della storia. Anime e creature umane e non solo, anche gli animali ‒ umanizzati in modo grottesco ‒ parlano della propria condizione, del loro isolamento. Tutti, insomma, sono alla ricerca di un contatto con i propri simili. Per affrontare il buio delle loro vite, i fallimenti, gli sbagli, le opportunità non colte.
Lo snodo, e l’inizio del film, è la rottura dell’amicizia tra Pádraic e Colm. In un pomeriggio qualunque Pádraic (Colin Farrell) va dall’amico Colm (Brendan Gleeson), che ben presto gli svela qualcosa che Pádraic non ha minimamente percepito: Colm non vuole essere più suo amico. Vuole dedicarsi alla musica e non stare a perdere tempo dietro alle noiose e pedanti storie dell’ex amico.
Il cui legame fatto di conversazioni futili e senza senso, che si svolgono tutti i giorni, quando si danno appuntamento alle due del pomeriggio al pub, viene troncato senza alcun apparente motivo e spiegazione tranne quella da parte di Colm di averne fin sopra i capelli di Pádraic e di non voler più trascorrere più tempo in sua compagnia.
Pádraic cerca di capire e chiede aiuto alla sorella e al parroco. Pádraic non se ne capacita. Non capisce. Cerca di capire meglio. Si ostina a non capire che cosa possa aver fatto o detto per infuriare l’amico.
Sta di fatto che un motivo non c’è. Colm, è molto più vecchio di Pádraic, sente di non aver concluso nulla nella sua vita e vuole rimediare, componendo musiche per violino che rimarranno.
Intorno a loro e alla loro storia, ruotano personaggi non per forza minori, come Dominic (Barry Keoghan), il figlio del poliziotto del villaggio, additato come lo scemo del villaggio, in realtà un ragazzo sensibile, il quale subisce abusi da parte del padre (Gary Lydon), e semplicemente alla ricerca di amore; la sua dichiarazione alla sorella di Pádraic, Siobahn (Kerry Condon), la quale inevitabilmente lo rifiuterà vista la differenza di età segna idealmente lo smacco esistenziale e comunicativo che pervade tutto il film e del quale lo stesso Dominic sarà la prima vittima.
In fine il paese vero e proprio. Con il suo necessario bisogno di storie, di litigi, di fatti da raccontare e su cui immaginare, perché anche di questo è fatta l’isola.
I reiterati rifiuti da parte di Colm arrivano alla minaccia, che si concretizzerà in modo assurdo, grottesco e truculento: prima con atti di automutilazione che Colom pratica sulle mani della mano destra, poi, con l’uccisione da parte dello stesso dell’asina di Pádraic, sua fonte di sostentamento, oltre animale che fa compagnia all’uomo.
L’uccisione dell’animale, così caro a Pádraic, la partenza dall’isola della sorella diventano motivi per far diventare il gentile e mite Pádraic un assassino. No, nel film non si vede la morte dell’ex-amico, ma si vede Pádraic dare fuoco alla casa di Colum e sostenere che quello è solo l’inizio.
Allora, l’uomo mite e amato da tutti per la sua gentilezza che (per buona parte del film) Pádraic rappresenta e persegue come obiettivo della sua vita modesta e fatta di poche semplici cose, viene meno. Un volto rigato si mostra allo spettatore che si aspetta da un momento all’altro il venire alle mani dei due uomini.
Il grottesco, l’orrorifico e in molti casi una stralunata e surreale ironia dei dialoghi resa dalle superbe interpretazioni di Farrell e Gleeson, con le loro ruvide e smozzicate interazioni, richiamano per alcuni versi il teatro dell’assurdo di Samuel Beckett, mentre in alcuni passaggi sembra di assistere a un film di Buñuel; una frequentazione di questo tipo di estetica con la quale Colin Farrell si era già cimentato nel 2015 con la straniante distopia di The Lobster di Yorgos Lanthimos.
Ad amplificare il tutto è il grande, brullo, scabro e quasi lunare paesaggio irlandese e l’immenso mare costantemente sullo sfondo, con le grandi onde che si infrangono sulle selvagge scogliere e delle quali il montaggio sonoro attutisce scientemente il rumore quasi a voler focalizzare l’attenzione sulla commedia e il dramma degli uomini. E un cielo cupo, mai rischiarato da un raggio di sole. Il paesaggio li contiene, li osserva e chissà se li commiseri.
Gli spiriti dell’isola è un dramma dell’isolamento, dell’assurdo e della ricerca di sprazzi di umanità e calore in un’umanità che assurdamente sembra averla perduta. In lontananza, dalla terraferma di Irlanda si odono gli spari dell’ultima fase della guerra civile tra i sostenitori e gli oppositori al trattato anglo-irlandese del 1921 che sancisce la nascita dello Stato Libero d’Irlanda (siamo nel 1923), una guerra fratricida della quale si sentono solo gli echi e della quale non si conoscono i motivi, proprio come nel caso della rottura dell’amicizia tra Pádraic e Colm. Emblematica, di questa estraneità politica sociale ed esistenziale la frase del poliziotto il quale si deve recare sulla terraferma per prendere parte, dietro compenso, a un’esecuzione a seguito delle lotte tra i sostenitori dello Stato Libero e membri dell’IRA. Il poliziotto confessa: non so chi debba uccidere e aggiunge che non si capisce chi lotti contro chi e che era meglio quando si sapeva che si doveva sparare solo agli inglesi.
Il film diventa una grande metafora della divisione fratricida che segna l’Irlanda dall’epoca della guerra civile.
È un film integralmente irlandese, quello di McDonagh, come lui stesso, il quale sebbene abbia vissuto per lunghi anni a Londra dove è nato da genitori irlandesi, non ha mai reciso i legami artistici e culturali con la sua terra, tanto da trarne ispirazione per i suoi lavori teatrali, la sua trilogia sulle Isole Aran in particolare, con i quali si è formato prima di arrivare al successo cinematografico con In Bruges – La coscienza dell’assassino del 2008 che vede come protagonisti gli stessi Colin Farrell e Brendan Gleeson, con 7 psicopatici del 2012 (con lo stesso Farrell), mentre è da ricordare la prova di Gleeson in Michael Collins, il film di Neil Jordan del 1996 sul rivoluzionario irlandese, anche se più noto è per il suo ruolo nelle vesti di Alastor “Malocchio” Moddy nella saga di Harry Potter, fino al più recente Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Irlandese è in gran parte la produzione del film, irlandese è l’ambientazione e tutto il cast, oltre ai due interpreti principali lo sono anche tutti i co-protagonisti che sebbene meno noti alla platea internazionale con questa prova danno un saggio di grande maestria.
Un film dai profondi e universali contenuti che ondeggia tra il beffardo e assurdo sarcasmo e il dramma. Un dramma che parla della fragilità umana e della disperazione di spiriti in cerca di tenerezza e amore. E della loro sconfitta.