Da Claudio Cherin riceviamo una nuova recensione: Holy spider, il nuovo film di Ali Abbasi.


Holy Spider è il terzo film di Ali Abbasi, regista e sceneggiatore iraniano che oggi vive in Danimarca, presentato al Festival di Cannes 2022, dove l’attrice protagonista, Zar Amir Ebrahimi, si è aggiudicata il Prix d’interprétation féminine come miglior attrice.

La pellicola rappresenta il lato più oscuro della nazione mediorientale.

Abbasi costruisce un thriller intrigante, per parlare di alcuni problemi d’attualità come il fanatismo religioso, i reduci della Rivoluzione iraniana, la droga e il ruolo della donna.

Interessante è anche il modo di raccontare la storia: Holy spider non è improntato solo sull’indagine, ma anche sull’identità del killer e sulle reazioni politiche, che gli omicidi portano a galla.

Nell’Iran del 2001, una giornalista di Teheran si immerge nei quartieri malfamati della città santa di Mashhad per indagare su una serie di femminicidi. Ben presto si rende conto che le autorità locali non hanno fretta di risolvere la questione. I crimini sono opera di un uomo che pretende di purificare la città dai suoi peccati e che di notte attacca le prostitute. Sullo spider-killer – ovvero Saeed Hanaei – così ribattezzato per il suo modo di agire, setacciando minuziosamente il reticolato della città di Mashhad, sono stati prodotti un documentario, Along came the Spider (2002) e il film drammatico Killer Spider (2020), testi audiovisivi che Abbasi ha essenzialmente distrutto e riscritto.

Tra il 2000 e il 2001, l’iraniano Saeed Hanaei (nel film interpretato da Mehdi Bajestani) ha ucciso 16 donne nella città santa di Mashhad, la seconda città più grande e importante del Paese e luogo di pellegrinaggio per gli sciiti di tutto il mondo. Hanaei era un veterano di guerra, sposato e con figli, in una città, dichiarata capitale spirituale, dove circola la droga proveniente dall’Afghanistan. Fanatico religioso, seguace dei discorsi di odio degli ayatollah, sosteneva di essere in missione per ‘ripulire’ le strade della città dalla corruzione

Holy Spider mette in scena l’incoerenza di un regime teocratico, che reprime la figura femminile, ma tollera la prostituzione. Un regime che convive con enormi problemi: la tossicodipendenza, il fanatismo religioso, che giustifica, e sostiene il machismo istituzionalizzato, il silenzio delle famiglie delle vittime che si vergognano delle scelte obbligate delle figlie.

Il film di Ali Abbasi gioca bene con i confini di genere, allargandoli – dal noir al thriller che connotano l’indagine – e restringendoli. Dal secondo tempo in poi, per arrivare alla chiusa finale forse più emblematica del 2022, Holy Spider racconta l’orrore dell’oggi. Dove una moglie può arrivare a giustificare un marito che uccide prostitute e la città può addirittura manifestare in suo favore. Ma, soprattutto, dove è proprio un ragazzo a spiegare che, se il governo non farà nulla per ripulire le strade, qualcun altro assumerà il ruolo di assassino. Forse addirittura lui stesso, perché figlio di quell’uomo che nient’altro voleva fare se non liberare la città da quelle donne, ai loro occhi, corrotte

Film di denuncia necessario, ancora e soprattutto oggi dopo i fatti del 13 settembre 2022 di Mahsa Amin, picchiata a morte dalla polizia morale iraniana, per non aver rispettato l’obbligo di indossare il velo, Holy Spider risente di questo fatto nella figura dell’hijab e in quella della sua protagonista. Una donna mal giudicata. Rahimi è una reporter incrollabile, che arriva dalla capitale e non vuole mettersi il velo e che, comunque, lo indosserà a suo modo (una ciocca di capelli tenterà sempre di sfuggirgli). È una giornalista che si porta dietro uno scandalo: pur non essendosi concessa al suo caporedattore, viene giudicata come se lo avesse fatto.

Proprio l’hijab, permette a Rahimi di investigare, di condurre un’indagine autonoma, lontana dall’inadempienza dei poliziotti. L’hijab le permette di abitare le strade di Mashhad, di scrutare con lo sguardo i tanti uomini che circolano in moto la notte, alla ricerca del giustiziere impavido, un Ayatollah autoproclamatosi tale e che trova nell’inammissibile consenso di una giuria di fedeli il motivo per continuare ad attaccare. Abbasi cura anche la fisionomia di Ebrahimi, rendendola parte fondamentale del suo essere detective in una città che non è la sua: paradossalmente, quando indossa il velo, Rahimi sembra più giovane, vive dell’indagine. In poche parole, è una donna di Mashhad. Nella sua stanza, mentre telefona alla madre, che le chiede se, prima o poi, avrà intenzione di tornare a casa, Rahimi dimostra effettivamente la sua età: è una donna che ha vissuto, con un passato difficile alle spalle, annichilita dall’Iran e che vuole ferire con l’arma della denuncia.

L’attrice protagonista Zar Amir-Ebrahimi offre una performance formidabile, catturando in modo convincente il coraggio e la determinazione del suo personaggio. Mehdi Bajestani, invece, assume un ruolo difficile e complesso, permettendoci di vedere i diversi lati di un uomo tormentato e di un mostro impenitente.

Cosa succede una volta che il killer è preso? Quando il film di Abbasi diventa politico, ci si rende ancora più conto di quanto il regista di origini iraniane sia abile a giocare coi generi. Nel processo mediatico l’assassino viene trattato come un eroe. Mentre le vittime vengono ancora di più mortificate.  Lo sguardo di Abbasi diventa cupo perché un’intera società ‒ che non vede nulla di male nella morte delle prostitute, che riporta la narrazione affermando che il machismo è perpetuato da generazioni di uomini ‒ è costretta a ripetere i suoi errori.

Se nei due film precedenti, Shelley (2016) e Border (2018), Abbasi si era avvicinato al terrore tentando di catturarlo visivamente, in Holy Spider questo è latente, in ogni inquadratura. Il terrore è essere una donna in Iran, fa capire il regista. Perché le donne non sono tutelate. Il terrore è l’idiosincrasia persiana, è l’abitare una città sacra profanata dal colore verde. Il terrore è una progenie che vuole mettersi sugli stessi pasi falsi dei genitori, che non ha paura a nascondere una donna sotto al tappeto, renderla cavia, muoverla e rigirarla – anche se si tratta della propria sorella (e per di più di un gioco!) – per istruire l’altro. Qualcuno che verrà e accetterà di diventare un nuovo giustiziere.