Riceviamo da Claudio Cherin una nuova recensione che volentieri pubblichiamo.
“Ero un poliziotto fiero e avevo onore“, dice ad un certo punto del film Jang Hae-jun, il protagonista, a Song Seo-rae, la donna che ha finito per amare. E continua: “tu mi hai annullato“. È una passione lacerante, ai limiti dell’ossessione quella che è germogliata tra i due. È una passione indecente che finisce per incenerire l’uomo e la donna. E ha finito per distruggere la vita rispettabile di uno dei più apprezzati detective e lo ha relegato ancora di più nelle ruvide convenzioni sociali.
È questo il nodo della storia del film diretto da film di Park Chan-wook
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Ma andiamo con ordine. Un esperto scalatore è morto precipitando durante un’arrampicata. Il detective esperto Jang Hae-jun (Park Hae-il) si trova a indagare sulla dinamica dell’incidente, perché non è escluso che l’uomo possa essere stato spinto giù. Tra i sospettati spicca fin dal primo momento la giovane e bellissima vedova cinese della vittima, Song Seo-rae (Tang Wei). Si tratta di una donna indecifrabile, affascinante e pericolosa, di cui il detective si innamora, pur consapevole di mettere a repentaglio l’indagine e per questo di poter andare contro la propria etica professionale.
In una Corea del Sud, dove il ruolo degli uomini e delle donne è chiaro, il riscatto sociale è conquistato a fatica ‒il protagonista è il più giovane detective della polizia coreana che la storia ricordi‒ e a contare sopra ogni cosa è l’onore. E’ impensabile, per un coreano sposato, immaginare una relazione con una donna cinese, che sappiamo essere giunta in Corea da clandestina.
Sì, l’uomo che l’ha sposata era un pescatore che ricattava in nome dell’onore e della rispettabilità i compagni di sventura della moglie e di tanti altri in cerca di una vita migliore.
La donna non sembra dare importanza alla morte del marito. Non è sconvolta, né tanto meno ferma la sua routine: lavora come badante per un‘agenzia. Le donne anziane hanno la priorità perché sono vive, mentre il marito è morto, dice come per giustificarsi. Questo fa subito pensare che la donna possa aver ucciso il marito. E per questo viene interrogata e sorvegliata dall’esperto detective.
La dedizione al lavoro nasconde l’oscuro mondo della violenza domestica: il marito la picchiava, la umiliava e la teneva segregata. Non ha difficoltà la donna a mostrare al detective i graffi su una coscia o la ferita su di una mano.
La chimica sessuale tra i due protagonisti, in questo preciso momento, è palpabile durante momenti d’una sfuggente intimità: lei che mostra i graffi sulla gamba, lui che le sfiora le mani rovinate, lei che si mette il balsamo sulle labbra e poi applica lo stesso stick su quelle di lui, e addirittura mangiano insieme.
Ben presto emerge dalle indagini che la donna è sospettata anche in Cina. Avrebbe ucciso la propria madre e una volta in Corea, avrebbe di nuovo ucciso delle donne di cui si prendeva cura. Non è chiaro, ovviamente, l’intento. La donna è una fredda assassina o un’amorevole donna che aiuta le anziane signore a morire, per loro volontà? O una donna schiacciata dalla vita a cui è stata costretta in Cina? Anche questo rende la donna, oltre che misteriosa, affascinante agli occhi del detective. Incapace di vivere fuori dal suo lavoro, fuori da un matrimonio consumato, che lo lega ad una donna che non lo capisce più.
Quasi impotente il detective ‒ logorato da un’insonnia duratura, da un matrimonio finito, da un mondo fatto di soli morti e gente fatta a pezzi ‒ vede Song Seo-rae farsi strada nella sua vita, togliere le fotografie di casi irrisolti, tra cui la sua, spiegargli che esiste qualcosa di più. Prendersi cura di lui, facendogli un massaggio che gli consentirà di addormentarsi dopo molto, troppo tempo.
Qualcosa però non trona. E in uno dei suoi tormentati pedinamenti il detective scopre che la donna può aver ucciso il marito, complice involontaria una delle donne anziane ormai svanite, un telefono sostituito, un’app che verifica la posizione. In un momento di fragilità il detective esperto le confida come disfarsi delle prove.
Passa del tempo, la donna cinese si è trasferita nella stessa città in cui vive il detective, che nel frattempo ha deciso di autopunirsi.
Un giorno si incontrano al mercato del pesce con i rispettivi coniugi.
La donna cinese, che rientra nella sua vita di nuovo, si trova coinvolta per la seconda volta in un omicidio: quella del nuovo, giovane e ricco marito. “Era l’unico modo per vederti“, le sussurra lei.
Nonostante i falsi indizi, la posizione ambigua della donna e la scoperta di qualcosa che la potrebbe incriminare, nessuno crede al detective esperto. Nessuno crede che la vedova possa essere colpevole. Il secondo marito si è fatto dei nemici investendo malamente il denaro e ingannando gli investitori. Nel telefono della donna ci sono ancora il file audio in cui loro si sono scambiati frasi d’amore (un amore lacerante) e un audio in cui lui rinfaccia di averlo annullato. Di avergli fatto perdere l’onore. Di averlo distrutto, insomma.
Sulla strada al telefono si confidano l’ultimo respiro di un amore che li consuma e li tormenta.
La passione che li divora non può essere fermata. E non può che avere un finale autodistruttivo. Lei non può far altro che lasciarsi morire in una buca che ha scavato e che la marea, levandosi, non potrà che riempire. A placare il suo desiderio di vita, una dose di fentanil (medicinale con cui la donna ha ucciso le donne dell’agenzia per cui lavorava). A lui il triste destino di cercarla, gridare il suo nome, come un Orfeo. In eterno. E, forse impazzire.
Il film feroce e rigoroso, determinato e mai scontato sia per la caratterizzazione psicologica dei due personaggi che emerge in maniera progressiva, sia per come riesce ad avviluppare molto più del mistero in sé su chi sia colpevole di cosa. Alla base una sceneggiatura intelligente, brillante, piena di depistaggi tortuosi e coinvolgenti, le diverse interpretazioni toccanti e misurate, il sound design ora audace e ora malinconico, permettono al film di andare oltre al genere (definito da alcuni come neo-noir).
Ciò che rende Decision to Leave particolare è il suo midpoint, ovvero il twist narrativo che avviene a metà film: le maschere cadono e i ruoli si invertono, gli oggetti vengono scambiati e i sentimenti si ribaltano in un gioco amoroso ancora fallace e alienante.
Inizia così un altro film, un’altra prospettiva, che confluisce insieme alla prima in un finale già indimenticabile, dove l’acqua si unisce alla terra, dove il mare e la sabbia si personificano in malinconia e dolore. Decision to Leave è uno strumento congegnato per non avere scappatoie, per intrappolare i suoi protagonisti in un microcosmo di onde disegnate sulle pareti di casa, nelle parole sussurrate, in un mare che li cullerà fino agli ultimi istanti.
Decision to Leave è un misto di elementi una detective story, in cui i personaggi stringono relazioni fatte di sentimenti fortissimi e densi, laceranti e incalzanti (che sono i veri protagonisti) e in alcuni momenti si lega per una strana alchimia alla commedia, che il regista usa come espediente per raccontare e mettere alle strette la rigida visione del mondo del detective.
Ritrovamenti o foto macabre, soprattutto del corpo del primo marito (il regista sembra indugiare parecchio sugli occhi del morto e sulla fine che questi fanno) stanno a raccontare la cecità degli uomini, che circondano i due amanti. Accecati dalle convenzioni sociali e culturali.
Il regista stringe i due personaggi nelle stesse immagini, gli fa condividere uno spazio comune da cui è impossibile uscire. Il loro destino è già deciso dalle prime inquadrature. Park Chan-wook non è interessato neanche a nasconderlo, a renderlo un mistero, perché quello che gli interessa è formalizzare, in immagini, un ragionamento sull’annientamento, la fallibilità dell’essere umano, il reale valore della verità e del punto di vista.
Sceglie di fare tutto questo esplorando un amore asimmetrico, che parla due lingue diverse, che nel dolore e nella mancanza si riempie e fiorisce, che si rispecchia nel mistero e non nella benevolenza.
Park Chan-wook con Decision to Leave costruisce il suo film tramite una regia fatta di zoom barocchi e sovrapposizioni mistiche, tramite una storia spezzata e dilaniata per separare due prospettive simili, ma distanti, che si chiude lì dove aveva fissato le sue premesse, su una spiaggia al tramonto con piccole onde che si infrangono sulla sabbia per poi tornare indietro, in un mare calmo e silenzioso.
Park Chan-wook (diventato noto quasi 20 anni fa con Old Boy) sa come divertirsi e divertire ‒ con un rigore di tecnica, difficilissimo da pianificare, scrivere e poi girare e montare ‒ ma così liscio e semplice da guardare e goderne. Decision To Leave racconta quella complicata relazione di verità e falsità in cui le vere storie possono dimostrarsi all’improvviso false. E a prevalere è il dubbio. Eppure, malgrado il meritatissimo Premio alla Regia conquistato all’ultimo Festival di Cannes, il film è stato escluso dalle nomination agli Oscar.