Ecco un’altra recensione di Claudio Cherin.
Tutta la bellezza e il dolore è un film di Laura Poitras, frutto di un sodalizio artistico e politico che ha come obiettivo il racconto autobiografico della vita di Nan Goldin e la testimonianza dell’attivismo del P.A.I.N., il gruppo fondato dalla fotografa americana, per combattere l’operato di una potente casa farmaceutica.
Laura Poitras lavora sulle increspature, sulle crepe, sulle ombre, sui punti sensibili, su ciò che è celato e lo fa sia quando si rapporta ai personaggi che sceglie di seguire sia con le istituzioni.
L’obiettivo della Poitras è quella di raccontare gli Stati Uniti post-11 settembre. Un evento traumatico che ha dimostrato i lati oscuri del Paese più potente del mondo, paladino della giustizia e della pace e che invece tramite i suoi organi (NSA e Antiterrorismo, per esempio) compie ogni tipo di abuso, minacciando la libertà individuale dei cittadini.
Negli Usa Laura Poitras ‒ autrice di My Country My Country, nomination agli Oscar nel 2006, Citizenfour, premio Oscar nel 2014, Risk su Julian Assange, presentato a Cannes nel 2016 ‒ viene considerata come una “documentary filmmaker who is anti-US”, per i suoi docufilm, che criticano apertamente il sistema americano. Basterà citare due titoli per capire come mai una filmmaker possa essere giudicata come una contro e da cui guardarsi: My Country My Country, il suo primo documentario, candidato agli Oscar nel 2006, racconta attraverso un medico sunnita l’occupazione dell’Iraq da parte degli Usa e il processo elettorale del Paese dell’Asia occidentale. Mentre con il più recente Citizenfour racconta Ed Snowden, la testa pensante di WikiLeaks.
In tutti i suoi film, infatti, la Poitras, accanto a testimonianze filmate, prodotte da un rigoroso lavoro giornalistico, oltre che da uno studio tecnico (quasi scientifico) della tematica trattata, cura una propensione alla narrazione, non solo dei fatti, ma anche delle persone.
I personaggi non sono solo testimoni e voci, ma diventano interpreti della storia che raccontano. Cosa che umanizza il docufilm e lo rende meno giornalistico. Il che non significa sminuire il valore delle sue opere, ma anzi permette di mettere in luce un aspetto che la regista possiede: l’abilità di capire dove cercare la storia, dove trovare chi sarà in grado di mostrare in modo concreto i fatti. E questo può portare a risvolti, che immaginare a priori, è impossibile.
La fotografa Nan Goldin, attivista di caratura internazionale, ha lottato negli anni per ottenere il riconoscimento della responsabilità della famiglia Sackler, a capo della Purdue Pharma ‒ accusata di aver diffuso l’ossicodone come medicinale senza avere mai rivelato i rischi del farmaco oppioide ‒ e di convincere i più importanti musei del mondo a rimuoverla dalla lista dei finanziatori.
Attraverso diapositive, dialoghi intimi, rari filmati, scatti famosi, l’opera intreccia passato e presente di Nan Goldin, intreccia la sfera privata e quella politica e non perde mai di vista la ricostruzione forte e convincente sull’influenza che lo sguardo dell’artista ha avuto dagli anni settanta ad oggi.
Nan Goldin è nata in una famiglia benestante e colta e passa un’infanzia complicata e drammatica per la perdita della sorella Barbara di 18 anni, morta suicida, incapace di sopportare quella cultura puritana nella quale era cresciuta. Sicuramente il tragico evento ha condizionato Nan e la sua arte. Va via di casa molto giovane, e presto comincerà ad avere problemi di droga, ma negli stessi anni grazie ad una sua insegnante conoscerà finalmente la fotografia.
I mondi paralleli e nascosti prendono forma e si intensificano nei suoi primi scatti della Goldin grazie alla frequentazione del night club di Boston, The Other Side, che non era soltanto un locale per spogliarelli, ma anche un punto di riferimento di tutta la cultura underground. Qui realizza una serie di fotografie in bianco e nero alle drag queen facendo esplodere la loro fisicità, con rispetto e amore, mostrandole per quel che sono, senza psicanalizzarle e senza perdere la memoria di ciò che è il loro vissuto. Poi, dopo essersi trasferita a New York, Nan si concentra soprattutto sull’East Side della città e sulla sua comunità, sulla scena punk e new wave, che vede nell’uso dell’eroina un comune denominatore.
In quegli anni Nan ha fotografato i suoi amici nell’intimità quotidiana e si è data alla fotografia a colori e le immagini respirano di una nuova, lacerante naturalezza. Sono gli anni di uno dei suoi capolavori, tra gli altri, ispirato ad un’opera di Bertold Brecht, The Ballad of Sexual Dependency: negli anni ’80 l’artista proiettava una serie di diapositive sui muri dei locali, mostrando con crudezza la morte di una generazione che abusava di droga, alcol, con esistenze al limite. Una morte volutamente dimenticata dalle autorità e dalle istituzioni.
Dopo essere stata influenzata dal cinema di Antonioni, Fellini e l’opera video di Andy Warhol, l’opera di Nan Goldin a sua volta diventa un punto di riferimento per diversi fotografi che si aprivano finalmente ad esplorare mondi paralleli. Negli anni ’90, dopo un lungo periodo di disintossicazione, trova un’altra strada in cui poter esprimere la sua creatività: quella della natura. Laura Poitras lascia scorrere nella pellicola quelle fotografie dalla composizione imperfetta, spesso sfocate, oggi oggetto di culto. Si crea un equilibrio tra le forme e i colori delle fotografie e il racconto di un mondo disperato che si barcamena tra dipendenze, amore e morte.
In Tutta la bellezza e il dolore lo spettatore è messo di fronte a una tecnica piuttosto comune nella regia documentaristica: vengono alternati slideshow delle opere di Nan Goldin e filmati di repertorio per raccontarne il passato ‒ accompagnati dal voice over della fotografa in una sorta di flusso di coscienza ‒ con interviste e riprese del presente.
Questo attento lavoro di sottrazione risulta affascinante proprio grazie alla natura degli scatti di Nan Goldin che sono ‒ come viene esplicitamente detto nel film ‒ ‘quasi cinematografici’: a caratterizzare infatti la sua produzione artistica è la volontà di catturare la realtà e spogliarla degli artefici che la memoria tende ad applicare nel momento stesso in cui un evento diventa passato.
Laura Poitras, con Tutta la bellezza e il dolore ha vinto il Leone d’oro (il secondo documentario in neanche dieci anni a trionfare al Lido dopo Sacro GRA di Gianfranco Rosi).