Una nuova recensione di Claudio Cherin.
Sono le parole ad essere le vere protagoniste di Women Talking – Il diritto di scegliere di Sarah Polley. Che si trattino di parole di confronto, come quelle tratte dalla Bibbia che vengono citate, parole di rabbia, parole di dolore ha poca importanza. Le parole sono l’unica difesa che le donne, protagoniste di questa storia collettiva, conoscono.
Siamo nel 2010, ma sembra un’altra epoca. La storia si svolge in una comunità mennonita, comunità imparentata con gli Amish, per i quali il tempo si è fermato ai secoli XVIII-XIX. Le donne sono sotto il dominio patriarcale, non hanno diritto di cittadinanza e sono sottomesse agli uomini con pulsioni primarie in un contesto di consanguineità. Questa, la vita dimessa che emerge dalle testimonianze rese dalle donne, durante l’assemblea nel fienile (la vicenda per la maggior parte si svolge all’interno di questo fienile-mondo con rari scorci al mondo esterno)
Nei mesi precedenti sono state narcotizzate e stuprate bambine, ragazze, donne, anziane. Gli anziani, a cui hanno segnalato la cosa, hanno risposto che era Satana o i fantasmi a far loro immaginare quanto raccontavano. A confermare la versione delle donne c’è, però, solo il sangue sui loro letti. Fino a quando due ragazzine non riescono a identificare i loro stupratori. Per questo motivo è stato aperto un’indagine. E alle donne è stato detto di scegliere: rimanere e perdonare o andarsene.
L’ordine al quale appartengono si fonda sul perdono del prossimo. Sull’idea che l’unica giustizia sia quella della Bibbia. E sull’idea del perdono, chiuse nel fienile le donne discutono per capire cosa fare delle loro vite. Come mantenere la fede di fronte a tali eccessi. Scoprire dov’è l’amore, di cui si parla nelle Scritture. Perdonare o andarsene, queste le uniche soluzioni ammesse. Tutte hanno un punto di vista che mette in discussione una società diventata minacciosa, violenta e pericolosa per la loro vita. E quella dei figli.
L’impostazione teatrale non è solo la cifra stilistica del film, ma anche la dimostrazione della bravura della registra. In grado di interromperla quando necessario.
Nei momenti salienti le parole si fermano e la registra inquadra i bambini mennoniti che giocano nel prato dietro casa. L’intento è quello di far comprendere l’angoscia trasparente in cui queste donne vivono. Dare un volto ai colpevoli sarebbe sminuire il loro problema. Così le violenze che prendono forma dalle parole sono rappresentate un minuto dopo che sono state commesse. Un modo anche per dire che gli uomini potrebbero essere tutti colpevoli e solidali tra loro. Come tutti innocenti. Su questo indugia la regista. Sui loro volti, sulle smorfie impercettibili delle loro facce, sul loro muoversi a gruppi. Alcuni sanno e non vogliono dire. Per uno strano e indefinibile, oltre che indifendibile, cameratismo.
Della violenza si vedono gli effetti, ma mai le cause. Il pestaggio di Mariche (Jessie Buckley) da parte del marito ubriacone e manesco Klaas non è mostrato: a un certo punto compare con il volto tumefatto. Il sangue è una macchia nera. La fotografia è spenta, i colori tendono a sparire. L’obiettivo è specchiarsi nell’anima delle vittime, cogliere il dolore, le emozioni massacrate.
Le parole ad un certo punto si fermano davanti all’immagine cruda.
Sarah Polley dirige con mano ferma, perché quello che va in scena, è una battaglia interna. Interna ad una comunità che predica il rispetto per il prossimo. Interna ad una famiglia, in cui la donna finisce in silenzio per raccogliere ciò che rimane.
La bestialità e gli eventi restano all’esterno dal fienile. Luogo sicuro per le donne. L’assemblea diventa l’unico luogo sicuro, l’unico cerchio in cui è possibile ribaltare ogni convinzione maschilista e retrograda. Anche perché presto i due colpevoli saranno rilasciati, visto che la comunità maschile si è mossa per pagare la cauzione.
Anche la religione, fuori dal fienile, è uno strumento che serve a opprimere; il desiderio di elevarsi, di raggiungere la trascendenza, è affogato dalla follia, dal sopruso.
Spiccano nella comunità femminile le voci di Ona (Rooney Mara), quella che ha paura del futuro al di fuori della comunità, di Salome (Claire Foy), la donna ostinata ad avere giustizia, di Agata (Judith Ivey), la donna anziana saggia, ma capace di scegliere, di Scarface Janz (Frances McDormand) madre di Mariche che chiede scusa alla figlia per non averla saputa difendere da Klaas, il genero.
Dopo un primo voto tramite un segno sotto un’immagine, le donne di questa comunità non sanno né leggere né scrivere, le loro voci diventano i fili conduttori delle possibilità che possono scegliere: perdonare, andare via, fondare un altro ordine, andare nel mondo quello vero, resistere, confidare nella Parola Divina.
La tenerezza tra Ona (Rooney Mara) e il maestro di scuola August Epp (Ben Whishaw) non si può concretizzare, perché appartengono a un luogo dove tutto è violenza. E per quanto tutte siano d’accordo che il maestro di scuola sia, sì, un uomo corretto, che rispetta le donne, non sono ancora pronte per pensare che sia diverso e migliore degli altri uomini.
Per questo Ona, rimasta incinta per lo stupro subito, è ancora scossa e ferita. Tormentata se cedere ai suoi sentimenti verso Epp o reprimerli.
Quando le donne si chiedono se scappare da sole o portare con loro i figli adolescenti, la registra ferma, di nuovo, la narrazione orale e inquadra i bambini mennoniti che giocano nel prato dietro casa. Con l’intento di dire che, presto, anche quelli, che imboccano o cullano, diventeranno come i loro ‘simili’ adulti. Feroci e crudeli.
Ai fatti degli uomini si contrappongono le parole delle donne.
E la storia, che non sembra avere se non un finale di rassegnazione, si apre alla speranza.
Women Talking – Il diritto di scegliere ha vinto l’Oscar (e anche per la miglior sceneggiatura non originale), la storia è tratta dal romanzo (del 2018) Donne che parlano di Miriam Toews. Per altro autrice di altri romanzi molto belli, tra cui Un complicato atto d’amore, storia di una figlia che si allontana dalla vita della comunità mennonita.