Tutti conosciamo gli omini o i cani di Haring. In 32 anni di vita ha creato un linguaggio universalmente noto.

Che Haring abbia lavorato entro i confini di quella nascente forma d’arte che è stata (ed è) il graffitismo e che quello stesso movimento abbia evidenti debiti con il pensiero sorto dalle ceneri del 1968 aiuta solo in parte a capirne le ragioni.

I diari pubblicati nel 1996 e tradotti per la Mondadori nel 2001 da G. Amadasi e G. Picco risolvono alcuni dubbi.

Nel 1978 (ventun’anni) Haring scrive: “Keith Haring pensa in poesia. Keith Haring dipinge poesie. …. In pittura, le parole sono presenti in forma di immagini. I quadri possono essere poesie se vengono letti come parole anziché come immagini. ‘Immagini che rappresentano parole’. Arte egizia/geroglifici/pittogrammi/simbolismo. Parole come figure/immagini

E alcune pagine dopo continua: “... ma questo vuoto di ‘movimenti collettivi’, dopo i tanto celebrati e sovrastimati ‘movimenti’ degli ultimi dieci anni – Pop Art, arte concettuale, Minimal Art, Earth Work, postquesto e antiquest’altro – sembra indicare che è ormai giunto il momento di realizzare che l’arte è tutto e comunque. Che il concetto di arte viene in mente a ogni persona nella vita di tutti i giorni in forme e idee infinite ed è indefinibile perché è differente per ognuno; ...”

E infine: “Arte come esplorazione personale. Arte come soluzione della domanda ‘cos’é?‘ o ‘cosa significa?‘ Il significato dell’arte per come viene percepito dallo spettatore, non dall’artista. Le idee dell’artista non sono fondamentali per l’opera così come viene vista dallo spettatore. lo spettatore è un artista, nel senso che concepisce un certo percorso, che è unicamente suo. …. Il pubblico ha bisogno dell’arte, dunque è responsabilità di chi si ‘autoproclama artista‘ rendersi conto che il pubblico ha bisogno d’arte, ma non il fare arte borghese per pochi e ignorare le masse. L’arte è per tutti. Pensare che loro – il pubblico – non apprezzano l’arte perché non la capiscono e dalla quale perciò si estraniano, può significare che l’artista non capisce e non apprezza l’arte e prospera in questa ‘conoscenza dell’arte autoproclamata’, che alla fine è una grande stronzata. …. A me interessa fare dell’arte che venga sperimentata ed esplorata dal più ampio numero possibile di individui, con altrettante diverse idee individuali su un certo lavoro senza nessun significato definitivo. Lo spettatore crea la realtà, il significato, il concetto alla base del pezzo. Io sono solo un intermediario che tenta di raccogliere delle idee.

Quindi necessità di creare un linguaggio figurativo che unisca la chiarezza e la comprensibilità all’afflato poetico.

I tentativi di Kandinskij e di Klee di scrivere una nuova grammatica e ortografia dell’arte sono rifiutati. L’arte ha già una propria riconosciuta e ben nota grammatica e ortografia, all’interno della quale è necessario muoversi per creare nuova arte che permetta allo spettatore di essere a sua volta artista.

Questa forse è la vera scuola americana del novecento che, attingendo da una delle tante particolarità tecniche picassiane (l’uso della linea di contorno dei corpi – in contrapposizione allo sfumato impressionista), rielaborata da Leger, trova in Lichtenstein e Warhol i propri padri fondatori (non per nulla tutti passati, come Haring, attraverso istituti tecnici per pubblicitari).

L’arte per tutti, sempre.

Dalla presentazione dell’editore:

«La musica, la danza, il teatro e le arti visive; le forme dell’espressione, le arti della speranza. Lì è ciò a cui credo di appartenere. Che sia lungo un ruscello nelle Rocky Mountains o in un grattacielo di Chicago o in una piccola città chiamata Park City, Utah, è sempre con me. L’arte non mi lascerà mai e mai dovrebbe lasciarmi»: così scriveva Keith Haring nel 1977. E in effetti l’arte è stata la grande costante della sua vita: una creatività dall’apparenza spontanea che si è diffusa in tutto il mondo, nell’immaginario collettivo popolare come tra gli “addetti ai lavori” dell’arte contemporanea. Ma Keith Haring non è l’ingenuo graffitista che il pubblico potrebbe aspettarsi guardando le sue iconiche figure – dagli «uomini radianti» ai «cani che latrano» – che si ritrovano ovunque, dalle tazzine da caffè alla pubblicità. Lo dimostrano i suoi diari, scritti dall’adolescenza fino a un mese prima che l’AIDS lo stroncasse, nel 1990. Corredate da numerosi disegni, queste pagine raccontano con toccante spontaneità l’evoluzione artistica e personale di Haring, dalle prime esposizioni fino alla definitiva consacrazione nei musei più importanti del mondo, regalandoci tra l’altro un vibrante affresco del clima culturale dell’East Village degli anni Ottanta.

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