Una nuova recensione da Claudio Cherin
Beau ha paura di Ari Aster, con Joaquin Phoenix, è un flusso di coscienza per immagini, un film freudiano. In cui si racconta la vita di un uomo paranoico, dentro la sua stessa testa.
Mentre nella prima parte vengono fornite ‘coordinate realistiche’ per capire cosa si sta guardando, le paure, gli inseguimenti, i ritmi incalzanti e, appunto, le paranoie che sono solo nella testa di Beau, nella parte centrale il film si fa fiaba, la narrazione si contamina si passa da una storia ad un’altra, senza seguire un processo logico o cronologico.
Il film racconta la vita di Beau, un uomo in là con gli anni che ha paura di ogni cosa. La vita apparentemente normale è un’immensa fatica. La sua solitudine è palpabile. Non ha parole. Abita in un appartamento spartano e scrostato nei sobborghi di un quartiere malfamato, dove prostitute, accattoni, gentaglia di tutti i tipi si azzuffa, cerca disperatamente di raccattare qualcosa, per sopravvivere.
La sua vita è condizionata dall’anniversario della morte del padre, ricorrenza che da anni madre e figlio passano insieme. Solo che questa volta qualcosa accade e rende questo viaggio un’impresa impossibile: Beau perde (o gli rubano) le chiavi di casa e i bagagli; il bancomat è improvvisamente in rosso.
Da qui inizia un incubo instabile e perenne.
Una telefonata gli dice che sua madre è morta, all’improvviso. Sconvolto, l’uomo, che si è deciso ad andare all’aeroporto, una volta sceso in strada, viene investito.
Si risveglia in una camera della figlia di un’eccentrica coppia benestante, che insieme alla figlia, vive nelle impervie profondità del lutto ‒ Nathan, il figlio maggiore morto in guerra, è sempre con loro ‒ e usano psicofarmaci come fossero caramelle.
Quando Beau comprende che mai lo accompagneranno nella città, dove risiede la madre, decide di fuggire.
Fugge fino ad addentrarsi in una foresta e incontrare una donna incinta (Amy Ryan) che lo porta in una comunità che si chiama “Gli orfani della foresta”. In questo gruppo formato da persone di tutte le età si parla e si vive la condizione dell’essere orfani, il dolore e la perdita. E ognuno indossa vestiti di animali o di altro genere ‒ fate, menestrelli, coccinelle ‒ e si allestisce una pièce teatrale, di cui Beau finisce per diventare non solo il protagonista, entrando all’interno di un lungometraggio animato.
Qui il protagonista assiste a una rappresentazione presente e futuro di Beau (e qui scatta pure una sequenza animata con Phoenix che invecchia con barba lunga come Walt Whitman).
Alla fine del cortometraggio animato, Beau si trova su un pick-up: ha trovato finalmente qualcuno che lo accompagna a casa della madre. Il funerale è finito; di lei rimane sono il video della cerimonia, dove si viene a sapere che la donna si è occupata di sicurezza. Da cui forse sono scaturite tutte le paranoie del figlio.
Beau vede nella casa la fotografia che lo ritraggono ragazzino. E ritrova, quasi casualmente, la bambina di cui si innamorato a sette anni: Elaine (Parker Posey) a cui aveva promesso di essere fedele.
Anche se Elaine compare, ad un certo punto, lei e Beau non sono destinati ad avere un futuro insieme: Elaine muore tra le sue braccia, durante un amplesso.
La madre di Beau (Patti LuPone) si scopre che non è morta: compare come un’ombra. E dice che il funerale era solo una messa in scena. Non era morta come sosteneva la voce all’altro capo del telefono all’inizio del film.
Madre e figlio si confrontano e si feriscono. Si capisce che un forte legame li ha uniti. In un alterco, l’uomo esasperato viene alle mani con la donna e la colpisce. Pensando di averla uccisa, prende la barca dalla baia e va verso il largo, che ben presto si trasforma in una grotta e in arena, dove la madre seduta e una platea di persone giudicano le azioni del figlio che non riesce a far altro che balbettare. E, alla fine, morire.
Da un punto di vista linguistico e visivo il film è un’avventura intellettuale: il regista mescola generi diversi, cortometraggi animati. A soffrirne è la narrazione: lo spettatore è perso nella mente di Beau, e vengono meno tutte quelle coordinate realistiche che si avevano nella prima parte del film. Come accade in Memento il film del 2000 scritto e diretto da Christopher Nolan. Ma come descrivere la nevrosi senza questi continui sbalzi? Come descrivere la paura e lo stress emotivo a cui è sottoposto (o si sottopone) il protagonista?
Nel terzo atto, quando Beau si trova di fronte alla madre, si ha direttamente a che fare con la paura dell’uomo. Al centro dei complessi freudiani, delle inibizioni sessuali, delle incomprensioni e dei traumi, la paura maggiore del protagonista si rivela essere proprio la madre, dalla quale, per tutto il film, tenta di tornare, ma l’inconscio tenta di fuggire.
La sua mente genera una paura irrazionale e incontrollata, che non ammette ragionevolezza né limiti di azione. Tutto viene esagerato, esasperato, tanto da costruirsi un gemello cattivo e un mostro/padre rinchiuso in soffitta.
Phoenix dà il massimo e riesce ad entrare in questo complesso film.
E il film merita di essere visto. E apprezzato.