Sul blog LaViadelleBelleDonne, qualche giorno fa è stato pubblicato un post interessante. Ne pubblicano tanti, in verità, e vale sempre la pena fare un giretto a dare una occhiata alle novità, ma questo mi ha particolarmente colpito perché affronta un tema, quello della comprensibilità dell’opera d’arte, a me molto caro.
Chi legge quello che pubblico qui, sa che mi sono espresso a favore di un “parlar chiaro” in poesia, nella speranza che da un lato si riduca (o almeno non si allarghi) la distanza tra coloro che scrivono e coloro che leggono (in Italia pochi, si dirà, ma quei pochi quasi sempre indirizzati verso opere di grande qualità industriale, ma spesso, molto spesso, di minor spessore letterario) e dall’altro che chi più sa, più dica, ovvero che gli intellettuali, i poeti, gli scrittori si riapproprino di quel campo che era di loro quasi esclusivo appannaggio prima dell’avvento di nostra signora Televisione.
Nel post si dice ancora una volta che l’arte non va “capita”, ma sentita, vissuta, che l’esperienza dell’arte travalica il suo o i suoi significati, che per quanti siano numerosi gli strati della famosa cipolla dantesca, comunque non sta lì il vero valore aggiunto dell’arte, ma sta, appunto, nella sua esperienza, nelle cose, non credo esista un termine più preciso, che riesce a dare a chi la approcci con sincera volontà di ascolto.
Sono d’accordo. In parte sono d’accordo. In parte perché l’arte, qualsiasi arte è un linguaggio e un linguaggio che ha solo o principalmente uno scopo metasignificante è un linguaggio, si permetterà, ben stravagante. Ricorda un po’ quella setrie televisiva della mia giovinezza, in un episodio della quale il protagonista riferiva che la madre a volte si esprimeva con suoni gutturali e quando l’altro gli chiedeva se era perché conosceva il linguaggio degli Indiani d’America, quello rispondeva che no, non lo conosceva, ma solo, alle volte diceva cose che non sapeva neanche lei cosa volessero dire.
Gli artisti, noi artisti, a volte siamo così. Facciamo e diciamo cose di cui neanche noi conosciamo (non esattamente, ma per niente) il significato, ma l’arte, il fare arte non può e non è questo. Fare arte significa usare un linguaggio per esprimere idee, sensazioni, visioni, ricordi e tutto quello che ciascuno di noi vuole aggiungere, ma “usare un linguaggio” significa conoscerne la grammatica, il lessico, i fonemi, gli accenti, significa che ciò che noi si produce ha un significato letterale e poi, via, via, metaforico fino all’ultimo strato della cipolla, strati il cui numero, certo, nessuno conosce prima e/o durante la loro percezione, ma che in linea di principio è un numero finito, reso infinito, o apparentemente tale, solo dalla numerosità dei fruitori e dei momenti della fruizione.
Parlare chiaro allora significa essere consci del linguaggio che si usa ed usarlo nella sua interezza per farsi comprendere, per far sì che chi legge o guarda sappia come guardare o leggere, da che parte si inizia, dove si finisce, se si necessita di una lettura a distanza o ravvicinata, meditabonda e attenta o superficiale, attenta ai trabocchetti e alle allusioni o viceversa sicura e tranquilla, piana, come quella di un bimbo che per la prima volta legga Pinocchio.
Parlare chiaro è onestà d’artista, che non gioca a fare quello che viene invitato alle feste e si mette in fondo in controluce perché fa più figo, l’ombroso, lo scontroso, il combattuto, quello che dice e non dice, allude, lascia intendere, come gli imbonitori alle fiere. Un lavoro onesto, chiaro, trasparente, un lavoro da artista.
Non posso mancare là dove posso acculturarmi :))
A presto
Maeba
Forse non concordo sul “parlare chiaro”. Mi spiego: penso che anche quando si voglia essere il più letterali e universali possibili sia inevitabile una frattura fra il mittente e il ricevente. E’ una frattura nel canale di comunicazione connaturata nel fatto che il mittente non è anche il ricevente e ognuno dei due risponde a un insieme di simboli e contesti differenti. Per cui non c’è un oggettivo parlar chiaro, non può esistere.
Io poi ammetto di non sforzarmi nel tentativo di ridurre la mia espressività a un linguaggio basilare perché l’arte non si deve fare pensando a chi può capirla e a chi no…altrimenti verrebbe naturale deporre lo strumento espressivo e disinnamorarsi.
Come posso sperare che non ci si approcci pensando di dover capire esattamente.
Conosco il fonema, la grammatica la sintassi abbastanza per poterne fare un uso personale così come, penso, un pittore astratto debba saper essere figurativo prima di addentrarsi nel simbolismo…
In ogni caso quello che volevo dire è che, anche nel più letterale possibile, ciòc he arriva è relativo, viene ricreato ed è normale che sia così. Quindi perché accettare la forma apparentemente codificata e non quella strutturata diversamente? Se l’esito finale è comunque la reinterpretazione?
Sono d’accordo, ma tu sarai d’accordo che chi scrive e chi dipinge deve avere una padronanza tale del proprio linguaggio da essere soddisfatto, sicuro, tranquillo che ciò che ha scritto e dipinto sia esattamente ciò che voleva dire e dipingere, esprima con esattezza di linguaggio (comprese le sfumature e le possibili interpretazioni metalinguistiche) ciò che pensava e sentiva. Inoltre consciamente o inconsciamente tutti ci poniamo il problema della comprensibilità dei nostri testi a terzi e consciamente o incosciamente presupponiamo questi “terzi” più o meno simili a noi, oppure diversi a seconda degli scopi dei testi e dipinti.
In ogni caso, il parlar chiaro è sicuramente più l’espressione sintetica di una mia propria poetica che una assunzione teorica sullo scrivere o dipingere. Io sento la necessità, specialmente nella scrittura, d’essere capito, inteso.
Quindi da questo punto di vista, che è il principale, dovrei smetterla di rompere le scatole agli altri, quorum te. ciao sandro
Bisogna distinguere tra: (a) scrivere onesto, nel senso di avere presente con gioiose chiarezza e padronanza i mezzi e gli intenti della propria opera, del proprio lavoro; (b) essere consapevole che la propria opera è comunque destinata a una serie pressoché infinita di interpretazioni (non sempre altrettanto limpide e oneste). Questa seconda parte, purtroppo, non dipende (e non potrà mai dipendere) dall’artista. Mi sento poi di ribadire (in tutta onestà) che non è comunque corretto stabilire “categorie” di poetica che riteniamo giuste per noi, ma che magari non lo sono per altri… Sceglieremo le nostre strade, confidando di non percorrerle da soli; o magari di incrociarne altre – previste e impreviste. Dopo tutto, siamo umani (troppo umani)…
Hai ragione. come ho poi detto alla fine in un barlume di intelligenzza, il parlare chiaro è più che altro una mia personale e non estendibile dichiarazione poetica.
Nelle tue intenzioni poetiche c’è ben più di “un barlume di intelligenza”! C’è tutto ciò che unisce le menti oneste, le menti libere degli artisti che riconoscono nella parola un modo per CHIARIRE (a sé stessi e agli altri) la vicenda umana e terrena in cui si trovano a vivere. Contro questo buio disperante che sommerge, contro la stessa ambiguità della parola (che pure DEVONO usare) cercano quella purezza, quell’onestà – magari utopica – di cui sentono l’urgenza e l’esigenza). La tua pittura e i tuoi versi ne sono testimonianza. Vi si legge questa FORZA, vi si intravede questo DESIDERIO… E anche se la battaglia è destinata a essere persa (per tutti i motivi di cui si è già detto negli interventi precedenti), vale comunque la pena ricercare una primigenia, autentica, funzione dell’espressione e della comunicazione. Non credere che io ti sia poi così lontano…
lo so, lo so bene, basta leggerti. ciao