Competevano tutti
come fosse a rischio la sopravvivenza.
Inservibili aurori e tramonti
la notte sfuggente,
la lama affilata del giorno, quando colpiva
mostrando la ruggine e il sale,
svelava desideri, risorse.
Violando confini scoprivano limiti.

Paolo Rabissi
Da La ruggine, il sale (Lieto Colle, 2006)

Chissà cosa davvero voleva dire l’autore? La poesia è musica certo, ma anche significato e significante. E allora iniziamo.

Competevano: terza persona plurale del verbo competere, seconda declinazione. Etimologicamente dal latino cum petere, dirigersi insieme, incontrarsi, oggi ha il significato di gareggiare, discutere, litigare. Quindi: tutti competevano come se fosse a rischio la sopravvivenza, al grido evidentemente di mors tua, vita mea.

A questa competizione, parrebbe potersi dedurre dalla frase successiva, partecipavano inservibili “aurori” e altrettanto inservibili tramonti. Che debba intendersi giovani e vecchi è possibile, ma non certo. Potrebbe anche, invece, trattarsi di una indicazione degli stati fisici (o emotivi) di passaggio, che in fasi di competizione, quale quella indicata dal primo verso, sono più facilmente “inservibili”, meno solide, meno strutturate alla pugna, al combattimento, alla competizione. 

Quel che è sicuro è che l’autore da un punto di vista di costruzione della frase omette il verbo che regge i due sostantivi e il verbo non può che essere “erano”, terza persona plurale del verbo essere, che, come si sa, ha sia significati meramente descrittivi, fisici, per così dire, che filosofici. Data la precisazione connotazione temporale implicita nella prima frase (quello era un tempo in cui competevano tutti…) istintivamente si propende per attribuire a questa seconda frase una significato descrittivo: erano inservibili data la competizione generale, non in quanto intanto in sé. Gli aurori e i tramonti, senza star qui a sottilizzare sul fatto che mentre i secondi sappiamo per certo cosa sono per i primi bisogna credere ad una voluta forzatura ortografica delle corrette “aurore”, sono inservibili non di per sé per qualche loro caratteristica, per l’appunto, essenziale, ma in relazione alla competizione generale.

L’omesso verbo essere, declinato però alla terza persona singolare, regge anche il successivo “la notte sfuggente”. Il problema sorge quando ci si chiede perché una notte possa essere “sfuggente”, che, come noto, è il participio presente del verbo sfuggire, che significa “sottrarsi a qualcuno o a qualcosa, cadere, scivolare via, passare inosservato, scappare via”. Una notte, come qualsiasi altra cosa o azione, è sfuggente se è breve e la notte è breve solo per due categorie di persone: per coloro i quali di notte hanno un sacco di cose da fare (tipicamente i nottambuli gozzovigliatori) o per coloro i quali godono di sonno pesante e profondo. Fatto sta che per entrambi le categorie la notte è piacevole, mentre l’espressione “la notte sfuggente”, unita alla precedente frase “inservibili aurori e tramonti”, dà un senso di inspiegabile negatività. Verrebbe da pensare che la notte è giudicata negativamente sfuggente per chi la vorrebbe più lunga non per gozzovigliare più a lungo, ma per dormire per più tempo. La notte di cui parla l’autore è troppo breve, perché il sonno non basta mai? Si vorrebbe dormire di più, rispetto alle otto ore canoniche? Può essere, non si sa.

La terza frase che compone il secondo paragrafo ha un verbo espresso ed una subordinata che ne chiarisce modalmente e temporalmente il significato. Infatti la lama del giorno solo quando scopre ruggine e sale svela desideri e risorse. In altri casi, no. In altri casi la lama del giorno illumina le cose e basta, le fa vedere, ma, si direbbe, se non colpisce la ruggine e il sale, lascia in ombra, inspiegabilmente, desideri e risorse. Il che per i desideri è del tutto comprensibile, stante che i desideri essendo incorporei non hanno la possibilità d’essere colpiti (e quindi neanche svelati) dalla lama del sole. Ma le risorse? Le risorse dovrebbero essere illuminati e quindi svelati sia che sia ruggine, sale, salgemma, carbonio, o qualsiasi altra composto chimico. Invece, si dice che solo quando colpisce la ruggine e il sale, la lama del sole svela le risorse. Forse che solo il richiamo alla chimica può, come dire, illuminare la lampadina che ci fa immaginare risorse, nuove capacità, laddove prima erano solo desideri? Perché di inventiva deve trattarsi dato che è notorio che è il sale a causare la ruggine e quindi a decomporre, diciamo così, l’utile robustezza del ferro.

Infine la chiusa dal vago sapore di deja vu: “violando confini scoprivano limiti”. E già perché è dai tempi di Colombo che si sa che geograficamente parlando e limitandoci al globo terraqueo non ci sono più confini che non siano al contempo limiti. Ma non è così anche per l’infinito spazio, che proprio in quanto tale non comporta se non nozioni di confini che sono essenzialmente limiti, soglie oltre le quali bisogna ripassare e ripassare, senza soluzione di continuità?

Questo se si interpreta la frase da un punto di vista geografico. Se invece ci si spostasse sul terreno sociologico, quale l’uso del verbo violare potrebbe lasciare intendere, il significato della frase muterebbe in una chiave di desiderata giustizia: chi viola i confini, l’immigrato, il terzomondista, deve scoprire limiti, deve essere messo in galera. Ma non credo che questo fosse l’intendimento dell’autore, il cui intento evidente è quello di attribuire a questo breve componimento un significato metaforico, allegorico.

In chiave allegorica e ritornando all’inizio, in tempi in cui tutti competevano fraintendendo il senso di una necessità (sopravvivenza? Ma va là, sembra dire l’autore), tutti violavano confini, andavano oltre il dovuto, oltre le loro competenze, i loro diritti e ne scoprivano la vanità. E’ così? Esattamente non si saprà mai, a meno che l’autore non voglia spiegarsi meglio.

E proprio qui si torna al mio personale cavallo di battaglia. E’ ancora tempo di composizioni di questo genere? Il senso, il sentimento che la poesia vuole esprimere mi pare chiaro: un sentimento di frustrazione, di tristezza da giorno che muore o che al contrario viene spiazzato e schiacciato da una luce troppo accecante, di pessimismo palese sulla incapacità dell’uomo a interpretare i segni dei tempi, ma se questo è chiaro, perché esprimersi in maniera tanto oscura, così criptica? Per essere poetico? Perché dire pane al pane e vino al vino è “non poesia”? Dante era “non poeta” dato che, al di là della difficoltà attuale di interpretazione dovuta al passare del tempo e alla mostruosa erudizione dantesca, il discorso in lui è piano, rigoroso, comprensibile? Oppure, la nostra è un’epoca in cui vale e deve valere l’allusione, la costruzione del suono accompagnata ancora da rigurgiti surrealisti, freudiani, da “es” imperante?

Come ho già detto, io non credo: credo che questa sia una epoca che necessiti di un “parlare chiaro”, che non significa ovviamente una rinuncia alla metafora, al paragone, all’ossimoro e ad ogni altra figure retorica (anzi), ma che tutto il bagaglio tecnico de poeta e dello scrittore deve essere posto al servizio della comprensibilità del testo, in maniera tale da colmare, se possibile, sia la mancanza di idee morali e non che caratterizza in maniera drammatica il nostro tempo, sia il divario crescente tra cultura popolare solo comprensibile e cultura elitaria solo incomprensibile.

Un ottimo esempio di parlar chiaro senza perdere vena poetica viene sempre dello stesso autore, preso a pretesto, per questa tirata satirica e non. Eccola:

È stato un correre attraverso l’inverno
quasi non fosse inverno,
i giorni di sole e di luce quasi calda
mentivano con convinzione,
da un momento all’altro
potevano spuntare germogli dappertutto,
se ne poteva fare a meno
del gelo, della poca luce
dell’asserragliarsi di giorni opaco.
Sembrava di poter saltare una stagione.
Invece metà di febbraio, la seconda,
ha riportato tutto alle consuete immagini,
neve sui tetti, freddo sull’asfalto in poltiglia.

Paolo Rabissi
Da Orchestra. Poeti all?opera. Direttore: Giampiero Neri
(Lieto Colle, 2008, pagg. 87,  Euro 13)

Pubblicità