Della bellezza del film, della sua delicatezza, della sua ironia e del suo disarmante pessimismo si è detto. Un film non vince Cannes se non ha qualità e se vince Cannes allora se ne parla a lungo e in maniera approfondita.

Il film alla sua maniera denuncia la brutalità e la superficialità del nostro ordine sociale, che come si dice sempre è basato sulla famiglia. Fatto sta che in una società complessa ed estesa come la nostra a nessuno viene in mente una alternativa decente.

Fatto sta che nel film di questo si tratta, inneggiando alla accoglienza, all’amore, al rispetto. Elementi fondanti della piccola comunità che fin da subito intuiamo essere strana. Strana nella composizione. Strana nei rapporti reciproci. Strana nell’abitazione. Strana, soprattutto, nella assenza apparente di ogni tensione emotiva tra i suoi componenti. Nessuno litiga, nessuno alza la voce, si ride, si sorride, ci si fa i fatti propri, ci si aiuta. Strana.

Ai miei occhi di piccolo europeo provinciale questo clima di diffuso rispetto è sembrato una tipicità giapponese. E già perché di Giappone stiamo parlando e se supermercati, parcheggi, lavanderie, cantieri edili, autostrade, autobus e palazzoni di periferia sono del tutto uguali ai nostri tutto il resto è diverso.

Diversa la famiglia, certo, ma diverso il cibo (mangiano di continuo cose incomprensibili ai più), diverso il parlarsi (si veda come il padrone della lavanderia annuncia alle due lavoranti di dover licenziarne una), diversi i rapporti sociali (il vecchio negoziante che accortosi del furto regala caramelle – credo – al ladruncolo), diverse le abitudini e persino i rapporti sessuali.

Vedendo il film tornano alla memoria classici della letteratura nipponica come Il fucile da caccia (la nonna accettata dalla nuova famiglia dell’ex marito) o la Casa delle belle addormentate (il casino dove una delle due ragazze lavora ha come privé una stanza in cui il cliente può dormire sulle cosce della novella gheisha).

Il Giappone è un mondo a sé come forse tutto l’estremo oriente e di questo non ci si può che rallegrare in un’epoca come la nostra nella quale le città e il vestiario sta sempre più uniformandosi.

Tornando alla vicenda, il film è triste e senza speranza, perché appunto annota che non ci sono speranze rispetto all’ordine costituito e i bambini soli verranno ospitati in apposite strutture (e non con chi vuole loro del bene), mentre chi i genitori li ha, quelli si cucca. E’ successo a tutti noi di beccarci le nevrosi dei nostri genitori e a proposito torna alla mente quella battuta all’humor nero di un amico psicanalista: da me clienti orfani non ne ho mai visti. (perché vanno direttamente in psichiatria forse)

Per gli altri, i poveri, il sottoproletario, direbbe il dirimpettaio europeo di Keréeda Ken Loach, non c’è speranza. Come sempre nella storia verranno spazzati via. Si arrangino con formule magiche e furti al supermercato.

Vale il biglietto purché visto in orari che non inducano al sonno.

E’ un giapponese, anomalo perché il dialogo e vivo, ma pur sempre un film giapponese rimane: lento, triste e inesorabile come una ballata di Bob Dylan.

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