Dice Rilke: “….Ma di Cezanne volevo ancora dire: mai si era visto prima quanto la pittura sia sola in mezzo ai colori, come la si deve lasciare sola, perché quelli si spieghino a vicenda. Il loro rapporto reciproco: ecco tutta la pittura. Chi mette bocca, chi ordina, chi fa pesare la sua superiorità umana, il suo spirito, la sua abilità avvocatesca, la sua agilità spirituale, disturba e confonde la loro azione. Il pittore non dovrebbe diventare consapevole dei suoi principi (come l’artista in genere); senza compiere il giro delle sue riflessioni, i suoi progressi, enigmatici a lui stesso, debbono penetrarne così rapidi il lavoro che al momento del loro apparire lui non può riconoscerli. … Se le lettere di Van Gogh si possono leggere tanto bene, se contengono tanto, è cosa che in fondo parla contro il pittore (se confrontato con Cezanne) che egli volesse questo e questo, che sapesse, che venisse a sapere; che il celeste chiamasse l’arancio e il verde il rosso; che, curioso, avesse sentire dire questo nel suo animo, ascoltando in segreto l’intimo del suo occhio. Così dipingeva quadri che erano una sola contraddizione, pensando anche, per di più, alla semplificazione giapponese dei colori che pone una superficie sul tono prossimo più alto o più basso sommandola sotto un valore complessivo….

Un pittore che scriveva, un pittore che dunque non era tale, indusse con le sue lettere anche Cezanne a esprimere in risposta opinioni sulla pittura; ma se si guardano le poche lettere del Vecchio (Cezanne ndr), quanto è rimasto allo stato di goffo proposito, di espressione a lui stesso più che odiosa! Non era capace di dire quasi nulla. Le frasi con cui provò diventano lunghe, si intrecciano, si arruffano, s’annodano, e lui alla fine le lascia stare, fuori di sé dalla rabbia. ….

Ogni cosa detta è un malinteso. La comprensione si trova soltanto nell’interno del lavoro.”


Note mie: al di là della idealizzazione tipica dell’inizio del secolo scorso, ancora sull’onda lunga di un ritorno del romanticismo, dell’artista quale “selvaggio” o, meglio, terminale, antenna dei propri sentimenti e del sentire comune, Rilke qui becca una banale verità: se il pittore sapesse esprimersi a parole non userebbe la pittura. La pittura è un linguaggio e come tutti i linguaggi serve a parlarsi, a parlare da parte di chi e a chi non possiede l’uso della parola.

E poi è vero che ogni cosa detta è un malinteso, mentre un’opera, un quadro con la sua fisicità e univocità non permette malintesi, se non quando si cerca di esprimerlo- I sentimenti che fa sgorgare, invece, sono puri, non mediati. Per questo l’opera è sempre intrinsecamente superiore ad ogni discorso sull’opera stessa.

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