Mia moglie mi chiede perché io mi sia intestardito così su Giobbe. Lo devo al mio amico Diego che si ritrovava nella poesia del giusto senza colpa. Quel che il destino gli ha poi riservato conferma quella sua intuizione.

Preso da un punto di vista letterale il personaggio di Dio di questo libro della Bibbia non si distingue né per carattere né per azioni dagli altri dei che furereggiavano all’epoca.

Tra parentesi questa lenta evoluzione umana, che ha portato gran parte dell’umanità a ritenere che esista un solo Dio che si è mostrato agli uomini sotto diverse forme o che, per i non credenti, l’accumularsi della sapienza umana cristalizzata nei principali precetti delle diverse religioni abbia percorso vie sempre più intrecciate e ormai distinguibili solo per accento e non per sintassi, è un portato che a quei tempi e per lunga pezza era ed è stato bestemmia. Israele aveva il suo Dio che era il più potente di tutti, così come l’Egitto aveva i propri, i Greci altri e via così.

E tutti questi Dei si comportavano, stando ai racconti degli uomini, alla stessa maniera. Anche quello di Giobbe è un Dio che dispone a piacimento della vita dell’uomo e che poi quando si manifesta si esprime per assiomi. E’ un Dio patriarca che non può essere discusso, né si può discutere.

Ma la fortuna del libro non sta nella magnieloquenza divina, ancorché il capitolo ventottesimo sull’intelligenza e quello sulla creazione del mondo siano le pagine poeticamente più perfette del testo, ma sta nella potenza dell’uomo che si ribella e cerca di capire il proprio destino. Sta nell’uomo che accoglie le parole divine come sfida, come obiettivo.

Quando Dio chiede provocatoriamente se Giobbe fosse mai sceso in fondo al mare e ne conoscesse le profondità o se sapesse quando le camosce partoriscono o se potesse prevedere i cicli solari e lunari, ecco che fissa il programma e la sfida cui l’uomo ha poi aderito.

Quando si chiede dove sia o stia l’intelligenza e risponda che nelle cose e nei luoghi non c’è, né che i vecchi la posseggano più dei giovani, ecco che Dio sconvolge equilibri sociali, tradizioni, superstizioni e lancia ancora una volta la sfida che l’uomo ha poi accolto.

Questa interpretazione immediatamente ricorda il Canto XXVI dell’Inferno, quando Ulisse per convincere i compagni a superare le colonne e a gettarsi verso l’ignoto, come tutti sanno dice:

considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e canoscenza

La conoscenza di Dante è la stessa che Dio indica a Giobbe quale limite e confine che definisce la differenza tra se stesso e gli uomini, quel confine e quel limite che l’uomo di lì in poi ha sempre inseguito e insegue, pur nel timore che le cose alla fine possano terminare come, secondo Dante, terminò l’avventura di Ulisse e dei suoi compagni.

D’altronde il genoma è genoma e ognuno deve seguire il proprio destino: il nostro pare quello di non fermarci e accettare le sfide. Orgoglio e intelligenza sono le scintille che da Giobbe abbiamo imparato.

Io da questa storia ho tratto 43 disegni, uno per capitolo. E’ la mia personale rilettura della storia. Se vi piacciono, ne sono contento.

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