Chi frequenta questa pagine sa quanto il racconto biblico di Giobbe mi abbia interessato e mi interessi. L’idea di Dio che permette al maligno di metterci alla prova, la resistenza di Giobbe, la sua pretesa, accolta, di parlare con Dio, la sua abissale caduta e la sua resurrezione, ecco tutto questo ho letto, riletto, pensato e ripensato.

Non può sorprendere quindi che sia andato a teatro al Parenti a Milano a vedere lo spettacolo recitato magistralmente da Roberto Anglisani su un adattamento letterario e scenico dal testo di Joseph Roth di Francesco Niccolini.

Spettacolo di norma induce il pensiero a scenografie, giochi di luce, musica: qui tutto è ridotto all’essenziale. Una sedia, un cappello nero (quello che il novello Giobbe di Roth non si toglie mai dal capo), un libro posato a terra, luci quel che basta, musica e rumori di scena poco o punto. Eppure, eppure per un’ora e mezza si rimane incollati alla poltrona in rispettoso silenzio seguendo il racconto di questo povero e stupido ebreo russo/polacco (quando quelle terre avranno pace?) e dei suoi quattro figli, la malattia, la guerra, l’emigrazione, la pazzia, il dolore.

E alla fine la storia biblica di Giobbe assume altri connotati, altri sapori e odori: è il popolo di Dio tutto il suo Giobbe? Sono quegli ebrei costretti alla fuga da innumerevoli e successivi pogrom? Giobbe è davvero Mendel Singer o non piuttosto suo figlio Menuchim, passato attraverso l’epilessia, la malattia, l’abbandono?

In ogni caso un testo da leggere o rileggere e uno spettacolo da vedere o rivedere.

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