Sollecitato dall’annuncio di Demetrio Paparoni su Facebook, ho letto sul quotidiano Domani l’articolo del critico Maurizio Bortolotti nel quale si dà conto della nuova mostra veneziana dell’artista cinese.
Ai Weiwei, ci ricorda Bortolotti, assurse alla notorietà internazionale quando nel 2013 presentò S.A.C.R.E.D. (Supper, Accusers, Cleansing, Ritual, Entropy, Doubt), sei casse metalliche contenenti ciascuna le scene e gli oggetti tipici di sei fasi fondamentali (mangiare, interrogatorio, lavarsi, ora di libertà, dormire, andare al cesso) della giornata di una persona detenuta nelle carceri cinesi. Ciascuna cassa misurava (misura) 377 cm di lunghezza, 198 cm di altezza ed era larga 153 centimetri. Attraverso delle feritoie era possibile sbirciare all’interno, vedendo cosa capitava al carcerato (l’artista) e ai suoi carcerieri riprodotti in scala e alti 110 centimetri.
Tutto l’occidente ne parlò e l’opera migrò di sito in sito per essere esposta anche a Venezia alla Biennale.
A Venezia quindi, come è giusto, Ai Weiwei è di casa. Infatti, dopo aver esposto nel 2016 sei gommoni appesi alla facciata di Palazzo Strozzi, oggi ci torna con La Commedia Umana – Memento mori.
Ci dice Bortolotti che la Commedia Umana è un’opera composta da oltre duemila pezzi di vetro soffiato a mano e fuso dai maestri vetrai di Berengo Studio di Murano. Questi pezzi di vetro compongono un enorme lampadario del peso di quattro tonnellate largo oltre sei metri e alto nove. I pezzi di vetro sono stati soffiati ad imitazione di ossa umane. La luce quindi diffonde ombre dalle forme di ossa.


In punto di commento Bortolotti scrive: “La realtà sembra diventare epica, ma senza alcun eroismo”, tanto che l’occhiello dell’articolo, a maggior chiarimento, si recita: “Natura, spiritualità e il continuo fascino del mondo contemporaneo sono i temi centrali della sua opera.” (di Ai Weiwei).
Ora, al di là di ogni giudizio estetico che ciascuna installazione (o opera) può suscitare, è evidente che il primo dato che colpisce è l’elefantiasi delle opere proposte. Il lampadario, ad esempio, poteva ben essere realizzato in proporzioni da appartamento, ma invece si è scelto di farne un gigante intrasportabile. Bortolotti ci avverte che in questo caso la grandezza (e la sfera) vuole ricordare la pervasività della pandemia. Fatto sta che l’enormità delle proporzioni è una costante di Ai Weiwei, come quando nel 2010 stese a terra alla Tate Gallery di Londra circa cento milioni di semi di girasole di ceramica, fabbricati e dipinti a mano da maestranze cinesi. In un mondo popolato da poco più di sette miliardi di persone ha senso fare un quadro o una scultura dalle proporzioni ottocentesche, sembra domandarsi Ai Weiwei proponendo opere così gigantesche.
Il secondo dato che risulta lampante è quello finanziario: di quante risorse e con quali ritorni economici può disporre chi pensa a cento milioni di piccole ceramiche o a oltre duemila pezzi di vetro soffiato? Secondo quali logiche Ai Weiwei, come molti altri artisti, è riuscito a raccogliere i capitali necessari per la realizzazione delle sue opere? Penso ad esempio alla montagna di sale di Paladino (molto meno costosa, certo) o alla recente installazione di migliaia di uccelli imbalsamati di Cattelan all’Hangar Bicocca o ai Sette Palazzi Celesti di Kiefer. Mecenatismo pubblico e privato? Questa parte del mondo artistico sembra essere l’unico ambito nel quale le logiche del mercato sono state soppresse. Ma è così? E’ davvero così?
Il terzo elemento, più generale, è che se la realtà e il contemporaneo secondo quanto ci riferisce Bortolotti sono la fonte di ispirazione dell’artista cinese, questa questione delle dimensioni e della meraviglia, che le stesse necessariamente suscitano, riporta alla memoria la pittura, il teatro e le concezioni barocche: siamo in un’epoca come nel seicento nella quale il pensiero, spesso sottile, si aggrappa alla tecnica e al meraviglioso per sopravvivere?
E se sì, significa che il novecento, le avanguardie e la loro pittura sono stati il nostro rinascimento?
AI posteri l’ardua sentenza.