Da Claudio Cherin riceviamo questa nuova recensione. Buona lettura e buona visione.
Utama – Le terre dimenticate ‒ diretto da Alejandro Lojaza e ha vinto il premio della giuria del Sundance Film Festival ‒ è la storia di poche famiglie di allevatori di lama, che ambientano in una Bolivia, che cede alla desertificazione. L’esistenza di queste poche famiglie è messa a dura prova da una siccità, che dura da più di un anno. La mancanza di acqua fa sì che le persone debbano percorrere distanze notevoli per raggiungere il fiume, che si è fatto torrente.
La piccola comunità è legata profondamente alla terra, per questo non vogliono abbandonare il villaggio, anche se molti abitanti del luogo lo stanno già facendo.
I due personaggi protagonisti sono molto diversi tra loro. Sisa è una donna in pace con se stessa al contrario di suo marito, Virginio, che sente avvicinarsi la morte, mentre attraversa gli altopiani andini con le sue bestie.
I due protagonisti vivono, pensano, scrutano il cielo, sperano. Consapevoli che il loro mondo, distrutto dalla siccità, non potrà che scomparire. E che anche loro sono destinati a svanire. Impensabile cambiare zona, come hanno fatto alcune famiglie del villaggio. Impensabile trasferirsi in città, perché consapevoli che quel mondo finirebbe per schiacciarli.
A cambiare la loro vita monotona è l’arrivo del nipote. Il ragazzo neanche parla la lingua quechua, eppure s’integra in un mondo che è suo solo in parte.
L’arrivo di Clever, il nipote, con la modernità che lo permea, è la scalfitura in questo mare di silenzio, vento e solitudine. Clever cerca, infatti, di convincere i nonni a trasferirsi in città, ma Virginio non ne vuole sapere anche se la loro quotidianità sta diventando sempre più complicata. Per quanto durerà? domanda, ad un certo punto, il nipote. Questa è forse una delle domande più attuali che si sentono ripetute nel film. C’è la possibilità di un ritorno alla normalità oppure nulla sarà più come prima?
Ma un altro è il tema del film, oltre alla siccità e alla fine di una delle culture ai margini del mondo globale: il lento addio alla vita del vecchio Virgilio. Il regista lo racconta con estrema delicatezza e rispetto. E gli spettatori si sentono empatici con il burbero Virgilio, che sceglie di morire nel proprio mondo piuttosto che andare in città.
La morte aleggia sul capo silenzioso di Virginio, che racconta al nipote la leggenda del condor che vola sulle stesse cime dove vanno gli abitanti del villaggio per far arrivare la pioggia. E, in una densissima scena, il condor ‒ fino a quel momento evocato, forse sognato, per non dire immaginato ‒ si fa presenza vera e si posa a pochi passi da Virginio.
La morte di Virginio sarà qualcosa di sicuro, allora. Non c’è posto per la medicina moderna. Il destino dell’uomo è segnato e accettato con serena rassegnazione.
Il condor in Bolivia è un animale sacro. Perché è il protettore della montagna – come ha avuto modo di chiarire il regista ‒ e incarna la fonte della vita come per esempio il disgelo che, ogni anno fa rivivere la natura circostante. L’animale è anche associato all’immortalità; poiché ritorna al suo nido appollaiato in cima alla montagna per morire, la sua è una morte simbolica e non reale.
Utama segna l’esordio nel lungometraggio di Alejandro Loayza Grisi, che in passato è stato fotografo e capo-operatore. Il film si è anche ispirato ad alcuni viaggi che il regista ha fatto in Bolivia, per realizzare dei documentari, nella maggior parte dei quali, ha affrontato tematiche legate all’ambiente e alla società.
Lojaza ha un pregio: sa racconta la superficie di questa terra e in questo territorio (che ha una grande importanza nel film, forse ne è il vero protagonista). Ne ripercorre i sentieri pietrosi. Sembra accarezzarli con la macchina da presa.
Con l’uso d’inquadrature fisse, Alejandro Lojaza riesce a rappresentare il tempo, che sembra essersi fermato, la vita che scorre lenta, l’aridità del terreno fatto ormai di sterpaglia e di sale. Mentre la colonna sonora è composta dal vento che soffia insieme all’ansimare del vecchio e malato Virginio. Tutto, anche la sua dipartita da questo mondo e dal suo corpo terreno, è all’insegna della natura rappresentata da una montagna di sassi, quelli che l’uomo regalava alla moglie.
Stessa cosa la fa con i personaggi: il regista accarezza i luoghi, le mani, i volti scavati, ma alla fatica contrappone la dignità di questo mondo. Li osserva con l’interesse e la partecipazione di un Van Gogh. In alcuni momenti, infatti, sembra di trovarsi davanti a I mangiatori di patate di Van Gogh: la disposizione dei personaggi è la stessa e stessa è la lampadina che penzola dal soffitto. Quando filma ‘il lavoro’ lo fa non inquadrando mai il volto dei personaggi.
Lojaza non vuole raccontare la miseria di queste famiglie boliviane, ma vuole far immergere lo spettatore in un mondo altro, fatto di stagioni, profumi, luce e cieli d’un azzurro combusto. E anche di riti, che sarebbe un insulto pensare come pagani, perché rappresentano un millennio e più di storia e cultura locale. Il regista fa entrare lentamente lo spettatore in questo mondo magico e arcano. I riti, da quelli quotidiani a quello vero e proprio che prevede di sacrificare un lama, sono rappresentati con estrema attenzione. Lo spettatore non giudica, come non giudica il regista. Quello che si percepisce è, anche nel sacrificio del lama, una forma di legame con il territorio, che gli uomini occidentali hanno dimenticato, immersi nella tecnologia.
Alejandro Lojaza rappresentare la disperazione, certo, per un mondo che finisce. Ma non la rabbia. Ognuno di quelle famiglie sa perfettamente che è destinata alla scomparsa, come ad altre famiglie quechua prima di loro.
I protagonisti di Utama – Le terre dimenticate hanno i visi induriti dal sole e indossano gli abiti tradizionali. Forse non hanno neanche mai recitato prima. I registi boliviani spesso raccontano il loro paese e le tradizioni, che rischiano di scomparire, mettendo in scena persone del posto, che di recitazione non si intendono affatto. E Lojaza segue questo modo di fare cinema. Brillantemente.