La filmmaker italiana Susanna Della Sala ha girato un ottimo documentario tra antropologia e ecologia, tra malinconia e speranza, che si intitola Last Stop Before Chocolate Mountain.
Bombay Beach è l’ultima stazione prima delle montagne, dice qualcuno ad un certo punto. O meglio quello che ne rimane. Perché ormai Bombay Beach, la cittadina nella quale è stato realizzato il docufilm, che si trova nel sud della California, è quasi del tutto abbandonata, da quando le acque del lago Salton si sono rivelate inquinate dai rifiuti tossici dell’industria agricola.
Quanto è accaduto alla cittadina californiana, può accadere ovunque, sembra dire l’autrice.
Ma c’è qualcosa di più di un monito ecologista. O di una rappresentazione della decomposizione di Bombay Beach (luogo che, negli anni ottanta, ha vissuto un breve periodo florido come oasi balneare nel deserto, poi, è diventata una città quasi fantasma, i cui pochi abitanti si sono adattati alla situazione in modi sorprendenti).
Last Stop Before Chocolate Mountain è, infatti, una riflessione sull’umano. Lo si capisce bene in una delle scene più ispirate del film in cui si vedono due volti che si fondono insieme, grazie a una ruota di vetri e specchi che gira furiosa. Questo permette al documentario di far comprendere come il luogo e le persone, che continuano ad abitare, si scelgono, vegliano il passato, e da questo posto traggono linfa vitale.
La città attraverso le parole e le scene di vita quotidiana ridiventa il luogo della vita nel momento in cui si rimettono in discussione le fondamenta del vivere in comunità sul territorio. Della Sala va a scovare chi riutilizza materiali di scarto per fare oggetti di decorazione, e poi, da lì mostra un mondo di personaggi singolari e disperati che si affidano alla musica, alla pittura e alla rappresentazione scultorea per esprimere se stessi in questa terra di nessuno, che sembra avere leggi tutte sue. Ed è, forse, proprio grazie a questa ricerca che da un documentario ‘divulgativo ed euristico’ si passa ad una riflessione sull’umano, dove per ‘umano’ si intende, appunto, la capacità del fare, la capacità del costruire e del vivere (si vedono degli artisti che fanno in questo posto Land art). Ma anche rinascere in collettività, e fare di una città nata, come luogo di villeggiatura, nella profonda California, e, poi, morta, un qualcosa di nuovo. Rendendola così rifugio, oltre che una città dove alcuni artisti hanno iniziato a lavorare e abitare.
Così il film diventa, più che la cronaca di uno scempio della globalizzazione, una riflessione ‘su cosa l’uomo sia in grado di fare’. E su come l’uomo abbia la capacità di cambiare, se lo vuole. Questo il vero significato della parola ‘umano’ che la regista aggiunge alla riflessione codificata dall’antropologia, dalla geografia ‘umana’, dalla sociologia, dall’esistenzialismo, dal racconto degli uomini per altri uomini.
La pellicola si interroga sulle persone che si sentono a casa a Bombay Beach, ne racconta non solo la storia, ma il mondo in cui si sono adattati a quello che sembra un ‘luogo da cui fuggire’.
Ecco, allora, che dalla decadenza, dalla decomposizione delle case e degli oggetti, viene un piccolo messaggio di speranza. Perché ‘umano’ significa appunto collettività, passato, ma anche futuro. Mano che distrugge, ma che sa anche ricostruire ciò che ha abbandonato.
Raccontare l’umano non è facile. Alle volte non avviene. In questo caso deve essere venuto a posteriori: la macchina da presa ha raccolto visi, storie, case disabitate, fantasmi. E, poi, al montaggio è venuta fuori anche la presenza di una riflessione su che cos’è l’umano. Questa considerazione avviene attraverso un’empatia che si crea lentamente con gli abitanti. Con le loro storie, con le ferite che raccontano, come quelle che non si raccontano. E che gli spettatori provano nei confronti degli abitanti.
Della Sala lascia parlare gli abitanti, lascia che siano loro a raccontare. Non risulta mai invasiva, né tanto meno giudice. Il suo compito è quella di far uscire e raccogliere delle storie. E disporle come in un mazzo di fiori.
Ognuna delle persone, indotte a raccontare la loro storia, ha un vissuto tragico alle spalle, o semplicemente è nata lì, o vi si è ritrovata. C’è un ex Marine, ad esempio, che dopo vent’anni di servizio, ha lasciato l’esercito e si è ritrovato lì. C’è una madre che non vuole lasciare il luogo dell’incidente in cui è morto il figlio. Ci sono persone che semplicemente aspettano. Altre che hanno voglia di fare qualcosa e, dal quel mondo di roulotte e di rifiuti, di ruote panoramiche in disuso, cercano di ricostruire un mondo nuovo.
La forza della ricerca filmica è proprio in quei volti, in quegli anziani, in quei rapper improvvisati e anche negli altri, quelli cioè che la telecamera non inquadra e che non saprebbero che dire se lo facesse.
Susanna Della Sala ha filmato sul posto, e poi ha montato un documentario che esplora un mondo sconosciuto ai più. Il linguaggio che usa è semplice e diretto, per fare ciò utilizza anche i filmini privati di compleanni o altri piccoli eventi che non passeranno alla storia. Altro pregio della filmmaker è che sa raccontare il loro silenzio. Raccontare la loro vita in un gesto. Sa come dipingere lo spirito e la filosofia di un mondo residuale. Di un mondo al crepuscolo. Dove si intrecciano storie diverse. Storie al limite, spesso ai marginali. O che dai margini sono giunti in questo luogo, un po’ per caso, un po’ convinti di quello che facevano, un po’ semplicemente come sosta intermedia con l’idea di andare via presto. E, alla fine, sono rimasti. Più per necessità che per altro.
Bombay Beach, dice uno degli abitanti, un rapper, non è altro che ‘una baia di sale e decadimento’. Molte le difficoltà nel viverci, che il documentario mostra: il lago inquinato che va prosciugandosi, le case abbandonate di chi è scappato, e la scarsità dei rifornimenti nel deserto. Senza pietismo.





