Una nuova recensione di Claudio Cherin.
Giuseppe Fiorello, a 54 anni, firma un film d’esordio di quelli straordinari, recuperando sia nella cronaca sia nella sua esperienza di vita.
Per narrare il tragico delitto di Giarre del 1980, in cui due adolescenti gay furono ritrovati uccisi perché ‘colpevoli’ di amarsi, racconta la Sicilia che il regista ha vissuto in prima persona, con i suoi contrasti paesaggistici (il mare e le ciminiere sullo sfondo, gli spazi sconfinati e le mura domestiche claustrofobiche) e mentali (la generosità dell’ospitalità da una parte, la mentalità chiusa, patriarcale e legata a tradizioni secolari dall’altra).
Nel mezzo si trova la purezza di una storia d’amicizia e di amore che sboccia all’improvviso, e germoglia con la lentezza di chi ha l’età per assaporare ogni attimo.
Questo permette al film di essere poetico, delicato, toccante, e nel quale si trova traccia già uno stile maturo e una scrittura solida, contraria a ogni scelta ordinaria.
Fiorello racconta la Sicilia, dell’estate 1982. Nino è il figlio maggiore in una famiglia di creatori di fuochi d’artificio: gente onesta, allegra e laboriosa. Ma anche accogliente. Si fanno proposte di lavoro a tavola, ad esempio. Il ragazzo ha appena terminato il liceo con profitto e il suo regalo è stato quel motorino «Sì», con cui gironzola per la campagna.
Gianni, tornato dal riformatorio, ha qualche anno di più, vive in un altro paese con la madre e il patrigno che gli ha dato un lavoro nella sua officina e un tetto sopra la testa, ma che lo tratta con disprezzo. Le tensioni tra il ragazzo e il patrigno sono abbozzate quel tanto per far comprendere la relazione compromessa.
Di fronte all’officina c’è il bar i cui avventori si divertono a prendere in giro il ragazzo additandolo come omosessuale. Giannuzza, lo chiamano. Gli mettono sulle labbra il rossetto. Il ragazzo non li ascolta, li sfida entrando nel bar, non abbassa mai lo sguardo. Di lui si sa che ha già ‘corrotto’ un altro ragazzo, come gli ricorda la madre ad un certo punto, e a quanto dice Emanuele, uno dei vitelloni del bar, è stato sorpreso con un ragazzo a baciarsi in auto.
Un giorno, mentre Gianni sta andando a consegnare un «Ciao» ad un cliente, Nino lo urta con il suo motorino: è la scintilla che accende un’amicizia, che potrebbe condurre a qualcosa di molto più profondo.
Ma la Sicilia rurale dei primi anni Ottanta non è il luogo per questo tipo di relazioni dai confini incerti.
Giuseppe “Beppe” Fiorello esordisce alla regia del film Stranizza d’amuri, già titolo di una celebre canzone di Franco Battiato, con un progetto che può giungere inaspettato rispetto alla sua immagine cinematografica e televisiva. Un mondo dove non ha mai interpretato parti di omosessuali. Ciò non toglie nulla al film. Il suo è punto di vista su una relazione omosessuale, ispirata a fatti realmente accaduti, è quello di un uomo adulto, siciliano, intenzionato a mostrare le radici culturali e la persistenza tenace dei pregiudizi.
Fiorello ricrea un mondo e un momento del passato che appartiene alla sua autobiografia con grande onestà e immediatezza, ricostruendo ad un’epoca di ottimismo (segnata dalla vittoria dell’Italia ai mondiali) e di relativa serenità che oggi sembrano impossibili.
Riporta la luce, i colori, le temperature ambientali ed emotive di quelle estati al sud che sembrava non dovessero finire mai, e in cui i giovani potevano pensarsi giovani dei, come dice Cesare Pavese nella poesia Mito.
Fiorello e i suoi co-sceneggiatori Andrea Cedrola e Carlo Salsa tratteggiano tanto i vitelloni omofobi del bar e il patrigno violento quanto i genitori di Nino affettuosi, aperti agli altri, benché pronti a tramandare tradizioni che appartengono al patriarcato.
Personaggio pieno di ombre è invece la madre di Gianni, che ha già conosciuto la discriminazione nei confronti del figlio e vive nella paura di non saper proteggere né lui né se stessa dalla crudeltà della società patriarcale siciliana. E forse per legare a sé il figlio telefona alla madre di Nino. È il personaggio più tragico della storia. Legata ad un uomo che la disprezza, forse proprio per questo riversa sul figlio tutta la sua infelicità.
In questo racconto non c’è un giusto o uno sbagliato, non ci sono buoni e cattivi. C’è una storia d’amore delicata e inconsapevole, come può accadere a sedici anni. Vista come pericolosa perché in grado di sovvertire un sistema di valori maschilisti. Un sistema violento, dannoso e omofobo, ma che Fiorello ha il merito di descrivere con onestà e senza retorica, e mostrando con chiarezza quanta discriminazione c’è nei baretti di quartiere, come tra le mura domestiche.
Stranizza d’amuri non sembra un film di denuncia, ma un godibilissimo inno alla vita e alla libertà di amarsi. Nino è un ragazzo che non sa cosa sia l’amore, per alcuni versi è un ingenuo. Gianni è invece esperto del mondo e del male che vi si cela.
Colpiscono gli attori che interpretano i padri (specie Antonio De Matteo), ma anche le madri a fare (Fabrizia Sacchi e Simona Malato, una più convincente dell’altra).
Così come sono convincenti Gabriele Pizzurro e Samuele Segreto nei panni di Gianni e Nino.
Fiorello sceglie di cercare delle facce giuste e di attori in grado di rendere credibile e misurata anche la scena più drammatica.
Infine, c’è Battiato. Fiorello lo omaggia a più riprese e lo lascia vibrare nella colonna sonora.