Ozpetek ha sicuramente molti meriti. Fa film ben equilibrati nei quali il sacro si mischia col profano, il buffo col serioso, il tono leggero della commedia con qualche venatura drammatica.
In questo nostro paese così fintamente perbenista ha avuto il grande merito di avere con forza sdoganato, con le Fate Ignoranti, il tema dell’amore omosessuale, maschile (soprattutto) e femminile. Ci ha fatto ridere e pensare. Bene, no?
In quest’ultimo lavoro nel quale racconta la storia di un grande amore sfiora temi davvero pesanti (la malattia e la violenza) e lo fa senza convincere del tutto.
Chiunque abbia vissuto in prima persona il dramma del cancro sa quanto infinitamente più angosciante e lunga e penosa e soprattutto dolorosa sia quella malattia, come il cancro tolga il respiro e la forza e sia, appunto, lungo, lungo e sfibrante. Qui si è voluto mostrare senza esagerare, dando il volto irregolare e volutamente clowenesco di Paola Minaccioni alla malata terminale, quella che muore in una notte, così come per un infarto, quasi che anche il dolore e l’angoscia potesse essere un gioco. Chi ci è passato sa bene che non lo è. Grazie a Dio costoro sono una minoranza e quindi va bene così.
Ma il film suggerisce anche un altro tema che non viene sviluppato per nulla, che Ozpetek lascia cadere, forse perché altrettanto difficile, ostico e per nulla divertente. Il tema della violenza che può annidarsi nel carattere di un uomo e che una donna che ama spesso non vede o minimizza, sopporta e se ne rende complice.
La protagonista si innamora perdutamente (ricambiata) di un uomo a lei completamente diverso, di umili origini, mentre lei è borghese, razzista, mentre lei non lo è, violento, mentre lei è fredda e razionale.
La violenza di lui, lasciata intendere all’inizio del film, quando lui la minaccia di botte oppure durante la partita di calcetto verso la fine, non viene sviluppata, quasi che la forza dell’amore possa davvero smussare e cambiare questa caratteristica. Vedendo il film, specie nella sua parte iniziale, quando l’amore tra i due è allo stato nascente e poi, dopo, quando hanno bimbi ormai grandi e i due, divenuti marito e moglie, si allontanano, ecco io ho pensato spesso a quante volte questi amori sfociano nella violenza domestica, a quanto sarebbe stato maggiormente realistico il film e il carattere di lui, se si fosse affrontato anche questo tema. No, Ozpetek lo rifiuta. Non è quello di cui vuole parlare. Lui, Ozpetek, vuole parlare di amore, di amore romantico, melò, quello nel quale la violenza non c’è e se c’è è solo verbale. Nel suo mondo c’è solo amicizia, complicità e, appunto, amore. Gli amici si tradiscono, ma poi fanno pace. Gli amori si allontanano, ma poi tornano. Le amanti non fanno casino e ti procurano le parrucche. Un mondo così, fatato, che esiste poco o punto, ma che evidentemente a Ozpetek piace, piace molto.
Se davvero fosse così, le violenze domestiche non esisterebbero. Mostrare l’amore per un violento che non si traduce in violenza è discutibile, specie oggi, in un mondo nel quale siamo percossi giornalmente da notizie di mariti che picchiano mogli e in alcuni casi, ahimé, le ammazzano. Non funziona così. Almeno, sfortunatamente non nella grande maggioranza dei casi.
Chi è violento, chi si abitua ad usare la forza fisica per risolvere situazioni, ecco normalmente non cambia. E allora il messaggio alle donne e agli uomini non violenti avrebbe dovuto essere che i violenti andrebbero allontanati. Non c’è speranza in un amore per un violento, non si è amati, si è posseduti, non si è gratificati, ma minacciati. I violenti non vanno amati, ma curati, semmai. Bisogna fuggire dai violenti, non accoglierli nel proprio letto e certo non vanno accettati per quello che sono, come dice la protagonista dal letto dell’ospedale, poco prima di essere posseduta fisicamente, lì, in ospedale, dolorante e spossata dalla malattia, esattamente come la protagonista di Fede e bellezza del Tommaseo del 1850, posseduta mentre esalava l’ultimo respiro e affogava nella propria tosse da tisica.
Tutte le volte che ciascuno di noi, per pigrizia, ignavia o viltà e paura si piega ad una violenza, ecco lì si apre la strada ad altre violenze, ad altri episodi, spesso sempre più pesanti. Tutto questo nel film non c’è. Non era il tema del film, si dirà, ma ripeto aver mostrato la fantascienza di un amore per un violento che non finisce come spessissimo finisce, ahimé, è un peccato non banale del film.
Quindi un film tecnicamente ben fatto, certo, che gioca anche col tema dell’eterno ritorno, ma nel quale il melò è davvero troppo, troppo, esagerato, extradolce, zuccherato da coma diabetico, un po’ come certi rossi indecisici che con una certa luce ahimé mutano grottescamente in rosa confetto.
Vale il viaggio solo se proprio rimanere a casa costa fatica. Peccato perché la Signoris e la Sofia Ricci, esse sole, varrebbero il biglietto.