Giobbe doveva essere ricco di famiglia. Solo un ricco senza pensieri e affanni e ambizioni, contento di sè e dei suoi averi può essere definito “uomo di perfetta purità” o uomo che perfetto e retto temeva Dio e rifuggiva il male.

Non che i poveri non possano essere puri e perfetti, ma certo le preoccupazioni del viver quotidiano, il dovere di dover sostentare la prole (numerosa in quegli anni, complice l’assenza di segnale televisivo e illuminazione notturna), ecco spesso se non nelle opere certo almeno nei pensieri qualche impurità la inducono, qualche ombra solitamente la pongono.

Nè tantomeno possiamo pensare che Giobbe fosse uno che s’era fatto da sé, uno di quei nuovi ricchi, le cui proprietà e greggi e case sono state sottratte legalmente all’altrui dominio attarverso i commerci e gli scambi. Si sa, infatti, quanto la legge nel commercio, oggi come allora, disciplini civilmente i rapporti tra uomini tutti animati da diversi obiettivi, ma uniti in un tratto comune: non prenderlo, ma semmai metterlo. Quindi difficile, se non impossibile, in questi caso essere e rimanere integri, perfetti, puri.

Quindi Giobbe era ricco di famiglia. Non sapeva da dove gli fosse venuta quella ricchezza e agiatezza, quel poter provvedere a sette figli e tre figlie. Ricco e fortunato ché se la proporzione fosse stata diversa, per non dire contraria, ebbene dover maritare tutte quelle figlie sarebbe stato ancora una volta stimolo forte all’impurità di pensiero, sempre causato da preoccupazioni e ansie.

Ebbene, mentre lui era là a dispensare del suo alla prole, ai famigli, ai servi tutti e financo a contadini e mezzadri, ecco che il Signore riceve a corte l’Avversario.

Dice la Bibbia, o almeno così si intuisce, che i due non si vedessero da un po’ e come spesso capita in questi casi le attenzioni del primo sono tutte per il secondo.

“Dove sei stato?” gli chiede il Signore – come se non lo sapesse, lui che sa tutto.

“In giro” gli risponde quell’altro, un po’ come fanno tutti quando non han voglia di parlare degli affari propri. Forse in cuor suo anche lui pensa che la domanda sia inutile data l’onniscienza di Dio e forse proprio per questo inizia ad irritarsi, cambia d’umore, volge al peggio.

E ai fini della storia che qui narriamo è il Signore che provoca: “Hai prestato attenzione al mio servo Giobbe? Non c’è infatti uno come lui sulla terra: uomo perfetto e retto, che teme Dio e rifugge il male”

Sogghignando l’Avversario, ormai di umore pessimo (come peraltro sua abitudine) a sua volta risponde: “Giobbe è puro perché tu lo proteggi. Alza la tua mano da sopra la sua testa. Lascialo senza protezione e vedrai cosa gli capita e come di conseguenza bestemmierà come tutti.”

Qui ci si poteva aspettare dal nostro Signore quella saggezza, quella calma, quell’equilibrio che sempre gli attribuiamo, senza fallo e senza indugio. Non si risponde alle provocazioni. Le si ignora. E invece no.

Facendo professione di fede e utilizzando un ardito usteron proteron potremmo pensare che quanto Dio sta per dire sia l’estremo tentativo di riportare all’ovile la pecora smarrita dell’Avversario. Il Signore sa bene, perché tutto sa, che Giobbe non cederà e se la sua resistenza e virtù facesse traballare e vacillare e cadere, infine, la tracotanza dell’Avversario, ecco che questa sarebbe una mossa felice, come fa il giocatore di scacchi quando sacrifica un pedone per poter arrivare allo scacco.

Certo si potrebbe facilmente obiettare che se davvero Dio tutto sapesse o avesse saputo, avrebbe avuto anche ben chiaro che l’Avversario col caspita avrebbe ceduto trasformandosi in amico da nemico che era. E allora la mossa di Eloah (come talvolta la Bibbia lo chiama) avrebbe un altro obiettivo e ad altri sarebbe diretta: a noi lettori ovviamente per mostrarci quanto si possa rimanere saldi anche nelle tempeste più buie. Ma questo sarebbe vagamente tautologico e sicuramente banale.

In ogni caso sorprendentemente il Signore concede tutti gli averi di Giobbe al suo Avversario: “Fa quello che vuoi, ma non lo toccare”

Ora per comprendere che tra gli averi concessi da Dio a Satana rientrino anche i figli di Giobbe bisogna fare un nuovo, e stavolta sostanziale, atto di fede, narrativa, più che religiosa. Era quello un tempo in cui i padri disponevano della vita dei figli, senza che questi osassero sospirare o elevare anche la più piccola delle obiezioni. Di là l’umanità ha fatto passi da gigante in tutte le direzioni e anche in questa, tanto che oggi anche solo ottenere che un figlio ti aiuti in qualche faccenda domestica è miracolo degno di altri capitoli sacri. Fatto sta che quello gli ammazza tutti i dieci figli (anche i maschi), gli rapisce le mandrie, gli distrugge la casa, lo lascia solo con la moglie.

Voi capite che disgrazia più grande non era dato immaginare.

Ma Giobbe, come Dio sapeva, resiste.

Scornato l’Avversario, invece di sparire dalla vista di Dio (e come avrebbe potuto?) stranamente torna dal Signore. Un altro al suo posto non si sarebbe fatto vedere dopo quella figura meschina. Forse davvero la mossa del pedone Giobbe sta dando i suoi frutti. Torna, ma come i bulli di paese applica l’antico adagio: “non hai vinto, ritenta” e soprattutto se hai perso provoca ancora e peggio di prima. Chiede, quindi, di poter mettere la mani addosso, fisicamente, a Giobbe.

Vuole menarlo, distruggerlo, azzopparlo, massacrarlo, violentarlo, strappargli tutti i capelli, i peli, le unghie, scuoiarlo, piagarlo, ferirlo tanto che neppure sua madre, buon anima, potrebbe riconoscerlo.

“Pelle per pelle” provoca l’Avversario.

E ancora una volta, con supremo distacco e disinteresse, Dio si concede e lo concede: “Basta che non lo ammazzi”

Che poi sarà questo il più grosso e ripetuto lamento che Giobbe ripeterà: Perché lasciarmi vivo in queste condizioni!

Stupisce un poco questo lamento tardivo di Giobbe, tardivo perché giunge solo al termine di questo calvario, quasi che l’aver perso ogni proprietà, ma soprattutto e innanzi tutto i figli non fosse condizione sufficiente per un lamento tanto forte: il più perfetto e puro degli uomini perde dieci figli (ma ne sarebbe bastato uno, a mio modesto avviso) e mantiene un invidiabile aplomb. Ma quando la sorte lo storpia, allora attacca il lamento. Quasi che noi per lui fossimo piante e alberi, che tagliati rigermogliano, mentre amputati alla radice, feriti nel tronco e nelle radici, ecco che inevitabilmente non muoiono, ma lentamente seccano. E in effetti questa è una delle figure retoriche e poetiche del racconto. Oppure che ante litteram Giobbe abbia dato un fulgido esempio di quel egocentrismo di cui spesso il mondo femminile accusa quello maschile. Se non lo si tocca fisicamente, nulla lo turba.

In ogni caso quello mantiene le sue promesse e soddisfa i suoi bestiali appetiti. Giobbe dopo quel trattamento non più lui. Fisicamente e moralmente. Vacilla, ma non cede e quando la moglie angosciata, piangendo bestemmia, lui le risponde con la frase che da lui abbiamo imparato: Dio dà e Dio prende. “Tu parli come una stolta – le risponde, infatti – Certo, il bene lo riceviamo da parte di Dio, il male non lo dobbiamo ricevere?”

E qui termina la prima parte.


Citazioni:

C’era nella terra di Uz Giobbe, uomo integro e retto. Gli erano nati 7 figli e 3 figlie.

Ma l’Avversario rispose dicendo: ‘Forse che Giobbe teme per nulla? Non hai alzato un riparo per lui? Ma stendi la mano e colpisci: di certo ti bestemmierà in faccia.’ ‘Ecco tutto quello che ha è tuo: solo non stendere la mano su di lui’

‘Egli si mantiene ancora perfetto, mentre tu mi hai istigato contro di lui senza motivo’ Ma l’Avversario rispose dicendo: ‘Pelle per pelle, stendi la tua mano e tocca le sue ossa e la sua carne’ ‘Eccolo, risparmi però la sua vita’

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