Da Claudio Cherin riceviamo la sua ultima recensione.
Léo (Eden Dambrine) e Rémi (Gustave De Waele) vivono in simbiosi. Mangiano, studiano, giocano e dormono insieme. Sembrano gemelli eterozigoti. Ma sono solo amici. Uno il migliore amico dell’altro. Il resto del mondo non esiste. L’inizio delle scuole medie si abbatte su di loro. E quell’intimità e quella naturale complicità svanisce subito. La colpa è nello sguardo altrui. In chi, tra i loro stessi compagni di classe, insinua che tra quei due ragazzini ‒ cresciuti insieme, l’uno all’ombra dell’altro, l’uno con l’altro ‒ ci sia qualcosa di più di una semplice amicizia. Se Rémi non dà alcun peso a quelle parole, alle prese in giro e agli sguardi indagatori, per Léo è diverso. Così inizia il film Close del belga Lukas Dhont.
S’insinua in Léo il sottile dubbio sulla sua possibile natura, mette in discussione se stesso e trema davanti al giudizio che gli altri possono farsi su di lui.
Non c’é, però, nulla di canzonatorio, non c’è nulla di ostile in quello che le due ragazzine, all’ora del pranzo, chiedono. Le due ragazzine fanno una domanda, con estrema leggerezza, che però insinua non solo in Leo il dubbio, ma un silenzioso allontanamento dall’amico.
Per questo Leon decide di non fermarsi più a dormire a casa dell’amico, di non aspettarlo, come al solito, per tornare a casa. Vuole di segnarsi a hockey sul ghiaccio nel tentativo di (di)mostrare una virilità che non possa dare adito a dubbi. E allontana l’amico di sempre gradualmente. Fino a sfaldare la loro amicizia costruita nel tempo.
No, non ci si aspetta proprio un atto estremo dal silenzioso e remissivo Rémi, che cade sullo spettatore inaspettato e implacabile.
Rémi non prova a palare con Leo, non cerca di mostrarsi per quello che non è. Il regista non lo mostra. Non mostra il dolore. O il bisogno di comprendere. Come non si vede il ragazzo darsi la morte.
È il gelo di Leon a colpire lo spettatore, cosa che il registra racconta bene. Rimane sullo sfondo un mondo fatto di colori, un mondo che non cambia poi molto. Ma lo spettatore percepisce il dolore ‘bianco’, il rumore sordo del dolore del ragazzo. Con il quale il ragazzo convive fin da subito, per, poi, esserne quasi schiacciato.
Certo, ci si aspetterebbe altro. Léo assiste senza lacrime né rabbia, al funerale dell’amico e alla sua assenza. Rémi deve, fino all’ultimo, aver aspettato il Léo di un tempo giungere. Ma invano.
E, no, non si percepisce altro se non il nichilismo proprio degli adolescenti. Non la rabbia, non il sentirsi emarginati, non quel rancoroso essere vittima. Se c’è, il regista non lo vuole mostrare. Esiste, ovviamente anche questo, ma non è in questo che consiste la storia.
Rémi deve togliersi la vita perché tutto ha perso senso. Perché non c’è altro che può fare. Rémi è così preso dall’abbandono dell’amico, che non scrive neanche una lettera d’addio.
L’incontro con la famiglia di Rémi avviene qualche tempo dopo. A farsi viva è la madre dell’amico. Léo non sa come gestire quanto accaduto, se non facendo quello che ha sempre fatto: hockey, lavoro nei campi, scuola. Ad un certo punto, si sente soffocare dalla routine. Cerca in un altro ragazzo Rémi, ma comprende che niente sarà come prima. Bagna il letto, si addormenta vicino al fratello (come se con lui avesse trovato una nuova intimità). Poi, un giorno a scuola, in un gruppo di supporto, attacca un compagno che elogia qualità di Rémi, sostenendo, forse a ragione, che di Rémi non sa proprio nulla. E per questo Léo s’infuria. Questa è forse la parte più delicata, quanto amara del film stesso, oltre a mostrare una capacità di osservare e di narrare senza cadere in alcun facile stereotipo da parte del regista.
Il bisogno di un perdono nell’animo di Léo arriva dopo la fine della scuola. Quando Léo va alla ricerca della madre di Rémi. E le confessa di come sia stato lui la causa di tutto. È stato perché mi sono allontanato da lui, confessa. Quasi come se si aspettasse che la madre di Rémi comprenda. E lo assolva. Alla reazione sconvolta della madre di Rémi, seguono una serie di cambiamenti: il lento andarsene dei genitori di Rémi, il lasciare Leo a fare i conti con se stesso.
Non c’è salvezza. Non è possibile un perdono. Anche se Léo è solo adolescente. Con un problema, sulle spalle, più grande di sé.
Impressionanti sono le interpretazioni di Eden Dambrine (scovato dal regista su un treno) e Gustave De Waele che regalano a Léo e Rémi tutta la spontaneità e naturalezza di una reale coppia di amici.
L’uso meticoloso dei colori – su tutti bianco e rosso – e la fotografia lucente e poi pallida di Frank van den Eeden capace di seguire gli umori del film, fanno di Close anche un gioco di luci e di colori.
L’apertura del film mostra subito la volontà del regista di accomunare la strada di Léo e Rémi ai fiori coltivati, seguendo un certo ritmo scandito dalla circolarità: i colori presenti all’inizio sono un’appassionata cornice per la sincera relazione dei due amici. Questo prezioso rapporto si mostra con corse, o anche con una pedalata, da sinistra verso destra, con uno sfondo accesso per mezzo delle tinte vivaci dei fiori.
Il momento di conflitto, o di squilibrio, arriva il primo giorno di scuola e Lukas Dhont lo comunica allo spettatore attraverso uno zoom-out che infonde l’idea di un allontanamento. Quel luogo colmo di socialità è elemento disgregatore per gli inseparabili amici.
Orizzontalità e verticalità dialogano continuamente nelle inquadrature, mostrando con i movimenti di macchina tutte le sensazioni provate dai due tredicenni, quasi ossessivamente ripresi.
Ai luoghi aperti della prima parte si contrappongono gli spazi chiusi della seconda (il campo da hockey, la camera di Rémi, l’ospedale dove lavora la madre di Rémi, la macchina, la casa vuota, dove Léo guarda dentro e nella quale non sarà più accolto.
In fine il dolore amaro, quello senza lacrime, dove non ci sono le lacrime. Ecco qual è il nodo del film. E della storia.
Girl era un film sull’identità e sulla difficoltà di essere se stessi in un mondo semplificato da norme sociali ed etichette; Close mostra il passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Ma anche mostrare come il genere maschile non riesca a fare i conti con quell’insieme di paure che terrorizzano molti (ancora) uomini: una virilità da esibire sempre, lo spettro dell’omosessualità, gli stereotipi del pater familias.
La bravura del regista belga si trova sia nella capacità narrativa sia nell controllo assoluto sulla parola e sui movimenti di macchina. Close è un film come se ne vedono raramente. I registi si fermano prima. O lasciano solo percepire quella serie di paure maschili. Difficilmente la usano come plot per un film. Dhont non ha paura di farlo. In modo stringato e senza sentimentalismi, senza perdersi in divagazioni o in effimeri manierismi, racconta una storia sincera quanto cruda: il dubbio, che si insinua, la distanza, il gelo, dopo la reazione di Rémi, il bisogno del perdono.
Léo rimarrà per sempre fuori con il dolore senza lacrime conficcato nel cuore. C’è da chiederci se ci siano vincitori o vittime in questa storia. Forse non ce ne sono. C’è solo il dolore a minare e a distruggere ogni cosa. Nient’altro.