Al di là degli errori tipografici, sempre profetico Walter Benjamin: infatti con il crescere a dismisura della umanità (civiltà di massa) quel che viene a mancare è l’Aria. Un mero accidente tipografico, spiacevolmente e colpevolmente ripetutosi nel tempo, ha fatto sì che erroneamente il suo saggio degli anni 30 dello scorso secolo recitasse Aura, ma che il grande Benjamin intendesse Aria è del tutto palese.

Ora dimenticati i calembour linguistici, in realtà l’uscita per i tipi di Einaudi della raccolta di saggi “Aura e Choc” di W. Benjamin a cura di A. Pinotti e A. Somaini riporta alla cronaca il vecchio concetto di Aura e della sua perdita e il grande Gillo Dorfles subito ne parla sulle pagine del Corriere.

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In un’epoca di riproducibilità di massa (la nostra, ma già quella degli anni trenta del secolo scorso) l’arte, si dice, ha perso la propria capacità di creare e essere caratterizzata dall’Aura, cioé da quella singolare esperienza emotiva che si determina alla presenza di un’opera d’arte. Questa perdita è, secondo Benjamin, dovuta al fatto che oggi (è un oggi che dura ormai da quasi cent’anni) ogni opera d’arte è perfettamente e universalmente riprodotta e diffusa (foto, internet et similia).

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Ora devo confessare che l’utilità del concetto di Aura, anche solo in chiave storica, mi pare dubbia.

Se di religione, o di un approccio religioso, si parla, ebbene il fatto che Dio, per i credenti, sia ovunque (per molte religioni ), nulla ha tolto all’Aura religiosa dei templi e delle iconografie, variamente riprodotte e scambiate. Da questo punto di vista, l’essere al Moma davanti alla Signorine di Avignone non è certo la stessa cosa che tenerne in casa una copia per quanto perfetta, ma se la riproduzione è tale da ingannare i sensi di chi la osserva, allora l’Aura pittorica tornerà e con essa l’emozione profonda. Questa emozione che ogni volta si ripete è data, per le opere note, dal riconoscimento e dal rapimento, mentre per le “mai viste” dall’immediato rapimento che ogni vera opera d’arte può provocare. (se si desidera, ma ne dubito, tornerò in futuro su cosa intendo per riconoscimento e rapimento)

L’Aura si crea per la contestuale presenza della “cosa” (l’opera d’arte) e del credente e la fede nell’arte non è stata compromessa dalla sua riproducibilità, anzi.

Se invece si parla di tecnica e di massa, ovvero del fatto che le tecniche di riproduzione hanno permesso praticamente a chiunque di produrre una buona copia delle opere d’arte (macchine fotografiche ormai tanto perfette e precise da non necessitare di conoscenze specifiche), allora questo non ha intaccato il valore dell’opera, ma ne ha solo potenziato all’infinito la forza.

Certo la perfezione nelle riproduzioni crea imbarazzo a chi debba decidere e certificare quale sia l’originale (e infatti è per larga parte di questo che tratta l’articolo di Dorfles sul Corriere), ma questo nulla toglie alla forza emotiva presente (o assente) nell’opera.

E poi, quantomeno limitando il discorso alla mia amata pittura, nella stragrande maggioranza dei casi l’originale mantiene una insopprimibile singolarità.

Mi pare che quando si affrontano questi discorsi, anche da cotanti pulpiti, si tende a dimenticare due aspetti dell’opera d’arte pittorica: la prima è la sua materialità specifica; la seconda è la sua individualità.

Per materialità specifica intendo che un quadro è un corpo e come tale descritto in maniera sempre incompleta da chi lo osserva. Per quanto il critico si dilunghi nel seguire ogni particolare del corpo del quadro, qualcosa rimarrà sempre escluso o dimenticato o non appropriatamente sottolineato, esattamente come anche le descrizioni più minuziose (e noiose) di portali di chiese (leggi Proust o Eco) o di tramonti o corpi umani non potranno mai ridurre a testo l’unicum che si vuole designare. Da questo punto di vista ha ragione Burri quando dice che l’opera è irriducibile.

Per individualità voglio, invece, significare quel carattere che ogni artista facilmente riscontra nel proprio quadro finito di indipendenza rispetto a se stesso, all’autore, al padre (o madre) di quell’opera. Una volta finito un quadro è, esattamente alla stessa maniera per la quale si dice che “io sono”.

E se queste due caratteristiche sono essenziali, la riproducibilità del quadro nulla toglie alla sua Aura, qualsiasi cosa Benjamin con questo termine volesse designare, né alla sua autenticità. Le copie sono copie, esattamente come le foto di Sandro Frera non sono (sfortunatamente) Sandro Frera.

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