Quando uscì nel 2016 il romanzo Le otto montagne di Cognetti ebbe un successo clamoroso coronato dalla vittoria del Premio Strega del 2017.

Adesso il regista belga dal cognome da ciclista, van Groeningen, coadiuvato alla regia da una attrice e autrice altrettanto belga e dal cognome impronunciabile in maniera corretta da noi latini (Vandermeersch) porta quel racconto sullo schermo cercando di far rivivere quelle atmosfere di natura dura e pura che avevano contraddistinto molte delle inquadrature di Alabama Monroe, suo titolo più noto.

Se là, in Alabama Monroe, eravamo nell’inverno della campagna belga (che all’inizio sembrava essere il profondo west americano), qui siamo sulle Alpi italiane e ancora una volta il panorama la fa da padrone.

Alberi, neve, ruscelli, laghi, bellissimi, incontaminati.

Questo è il fascino maggiore del film, che però non raggiunge l’afflato religioso che caratterizzava larga parte di un altro film di montagna di qualche anno fa, Il vento fa il suo giro, film, quest’ultimo, che dal punto di vista del “far sentire” la montagna raggiungeva vette che questo nuovo neanche avvicina.

Per il resto la storia della forte amicizia maschile tra Pietro e Bruno regge bene, molto bene lo stato embrionale, le estati passate insieme da ragazzini, mentre si sfilaccia negli anni successivi.

Si sfilaccia soprattutto a causa di una descrizione di Pietro mancata e mancante, amputata da parti rilevanti che impediscono di apprezzare appieno la pur onesta recitazione di Luca Marinelli. Perché Pietro litiga così ferocemente e fortemente col padre, tanto da sparire per anni e ricomparire solo dopo la sua morte? La figura dei padri dei due amici che si intuisce essere essenziale nello svolgimento della storia è assente.

In compenso la recitazione di Alessandro Borghi del montanaro Bruno è a livelli di assoluta eccellenza e da sola compensa, in parte, il prezzo del biglietto.

Quindi, come facevano alcuni insegnanti ai miei tempi, un sei per l’impegno: da qui a prendere il premio della critica a Cannes ce ne corre un bel pezzo, ma io non sono un critico, né tantomeno una giuria.

PS: come già notavo in altri film, anche in questo alla produzione partecipano almeno 8 investitori diversi, tra i quali due reti televisive. Il cinema è ormai parte integrante della Finanza internazionale e la sua produzione si inchina (giustamente?) alla logica della suddivisione del rischio. I tempi della coppia regista/produttore sono scomparsi, soffocati da costi di produzione sempre più ingenti (per larga parte rappresentati, immagino, da costi del personale artistico e non) e da tempi di realizzazione sempre più compressi. Ahi noi.

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